L'uomo che parlava per sentenze, il ricordo di Piero Mei

L'uomo che parlava per sentenze, il ricordo di Piero Mei
di Piero Mei
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Domenica 27 Aprile 2014, 20:40 - Ultimo aggiornamento: 22:55
Aveva quasi 83 anni Vujadin Boskov, che scomparso ieri nella sua Jugoslavia (s, oggi la Serbia, ma per lui fu anzitutto quell’altra).

E’ stato un allenatore di calcio speciale, giacché era un uomo speciale: specialissimo, anzi, tanto che ormai uscito da parecchi anni dalla scena del calcio vissuto aveva ancora i suoi grandi estimatori pure tra quelli che magari non lo avevano conosciuto, pure tra i nativi digitali, tanto che un suo divertentissimo fake, Vujadln Boskov, è uno dei più seguiti nella rete. Perché, come il grande e vero Vujadin, parla per sentenze che rimangono, per paradossi che faranno la fortuna dei raccoglitori di aforisma.



Era lui, Vujadin, nella sigla di Mai dire gol, trasmissione di culto, nella quale si chiedeva con faccia smarrita «Chi ha sbagliato? Pagliuca?”. Già, perché era Vujadin Boskov sulla panchina di quella Sam dei monelli che all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso arrivò in cima all’Italia, vincendo lo scudetto del ’91, e in cima all’Europa, vincendo la Coppa delle Coppe dopo aver perso (contro il Barcellona, 1-0, come già gli era capitato quando allenava il Real Madrid) la Champions.



C’erano in quella Samp anche Vialli e Mancini, che storia. Ma non furono i soli campioni che Boskov portò a volare, giacché, allenatore della Roma, fu lui che fece esordire il 28 marzo del 1993 un ragazzino che si chiamava, e si chiama perché la sua magnifica storia di campione da allora è andata sempre avanti, Francesco Totti. Da giocatore, anche Boskov era stato un grande: non aveva vinto molto, ma giocava nel Vojvodina, ed a quei tempi il campionato jugoslavo era appannaggio di Stella Rossa, Partizan o Hajduk, le squadre del regime. Poté uscire dalla Jugoslavia soltanto a 30 anni, prima le leggi glielo proibivano: era vecchio ormai e durò poco. Poi girò il mondo, da allenatore: in Svizzera e in Olanda, in spagna e in Italia, dove, oltre la Samp e la Roma, appunto, allenò anche l’Ascoli, il Perugia e il Napoli. Ha vinto sì, ma non è uomo da ricordare per le vittorie: è piuttosto da ricordare per l’uomo che è stato. L’allenatore che doveva essere, parole sue, “maestro, amico e poliziotto” per i suoi giocatori; l’uomo che tutti conoscono per quel magnifico “rigore è quando arbitro fischia”, la sua più celebre sentenza, che forse gli uscì perfino mutilata magari da un “purtroppo”, perché il rovescio non è vero: non sempre quando l’arbitro fischia sarebbe rigore. Addio, grande Boskov.
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