Lo storico Federico racconta l'altra epidemia, quando la "Spagnola" fece 300 vittime solo a Frosinone

Lo storico Federico racconta l'altra epidemia, quando la "Spagnola" fece 300 vittime solo a Frosinone
di Maurizio Federico
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Domenica 12 Aprile 2020, 06:00 - Ultimo aggiornamento: 10:40

Poco più di cento anni fa l’umanità visse pagine buie come quelle attuali. Oggi è Pasqua e le strade sono deserte, come allora. Anche allora cronache di lutti in molte famiglie. Anche allora, come oggi, la vita civile fu praticamente bloccata per diversi mesi. Nel mio libro “Frosinone agli inizi del ‘900”, descrivo quanto si verificò in quel triste periodo. Se l’inizio della prima guerra mondiale a Frosinone era stato segnato dalle distruzioni del grande terremoto marsicano, le ultime fasi della lunga guerra mondiale coincisero con la diffusione nella città, nei mesi di settembre e ottobre del 1918, di una tremenda epidemia: la “Spagnola”.

In realtà il morbo, che mieterà vittime a milioni in Europa e in tutto il mondo, non era per niente arrivato dalla Spagna; esso aveva assunto quella denominazione solo perché nella nazione iberica non essendo coinvolta del conflitto mondiale, i giornali di quel paese non erano soggetti alla censura militare per cui furono i soli ad informare che da mesi, nei vari fronti di guerra, fra i solodati ammassati nelle trincee in condizioni igieniche impossibili, si andava diffondendo una gravissima epidemia.

Si venne a sapere, poi, che il virus della “Spagnola” aveva iniziato il suo corso nei campo di addestramento delle truppe americane nel loro paese ed era arrivato in Europa quando i soldati dell’esercito U.S.A. sbarcarono in Francia.

L’epidemia arrivò a Frosinone sul finire dell’estate del 1918 e causò un numero di morti molto superiore a quelli dei soldati frusinati caduti nei quattro anni di guerra: furono, infatti, più di 300, fra cui oltre 100 bambini di età inferiore ai sei anni, a morire tra il settembre e l’ottobre di quell’anno.

A causa della “Spagnola” la mortalità a Frosinone passò, infatti, da una media annuale di 250 decessi a un picco, nel 1918, di 546 su una popolazione complessiva di non più di 13.000 abitanti.

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Tutta la città rimase sconvolta per i lutti che praticamente colpirono ogni nucleo familiare e per le difficoltà create dai provvedimenti di chiusura delle scuole, degli uffici, di ogni attività produttiva, delle chiese e la sospensione del mercato del giovedì. Il cimitero comunale poi si rivelò del tutto insufficiente ad accogliere un numero così enormi di defunti tanto che si dovettero costruire, in tutta fretta, addossati alla chiesa e ai muti di cinta, i primi loculi a più piani per accogliere le salme dei colpiti dall’epidemia insieme a quelle dei soldati caduti al fronte che nelle stesse settimane venivano riportate a Frosinone.

Un grosso problema fu determinato dall’esaurimento presso tutte le falegnameria della città delle scorte di tavole per la costruzione delle bare per le decine di decessi che giornalmente si verificavano in città. Si dovette perciò arrivare ad abbattere i cipressi dello stesso cimitero per rimediare delle tavole per la costruzione delle bare occorrenti.

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Tutto il personale del Comune in quei mesi fu impegnato ad assistere la popolazione: i salariati, in particolare, vennero impiegati nella costruzione di un lazzaretto di baracche di legno nei pressi dell’Ospedale civico al Borgo S. Martino. e anche, a ripristinare, nella parte bassa della città, alcuni vecchi casali isolati che già in passato erano stati utilizzati come lazzaretti per il ricovero dei colpiti dalle ricorrenti epidemie di colera e di vaiolo. Il Comune investì nelle settimane successive molte risorse per garantire la salute cittadina con pulizie straordinarie “post spagnola” del centro urbano e l’acquisto di calce per la disinfezione della Caserma “Guglielmi” e del Distretto Militare.

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Quando il 4 novembre arrivò in città la notizia della fine della guerra, annunciata dalle campane della cattedrale di S. Maria, la popolazione l’accolse naturalmente con grande sollievo. Ma i frusinati debilitati dalle privazioni degli anni di guerra e spossati dall’epidemia “Spagnola” non si fecero coinvolgere più di tanto dalle “celebrazioni patriottiche” che si susseguivano in Piazza della Libertà per la consegna delle croci di guerra alle vedove e agli orfani dei caduti.

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