Elezioni presidente repubblica, la rivincita del peone: da bistrattati a voti preziosi (e da dove viene questo nome)

Elezioni presidente repubblica, la rivincita del peone: da bistrattati a voti preziosi (e da dove viene questo nome)
di Mario Ajello
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Mercoledì 26 Gennaio 2022, 11:00 - Ultimo aggiornamento: 17:31

È il Parlamento più gonfio di peones della storia repubblicana. Un difetto? Mica tanto. «I peones sono liberi pensatori», dice infatti Paolo Cirino Pomicino, dall’alto e dal basso di tutta la sua lunga esperienza di ministro, capocorrente e organizzatore di truppe cammellate nelle elezioni presidenziali: si veda quella del ‘92, attraverso il film di Sorrentino, il Divo, con un Carlo Buccirosso-Cirino Pomicino strepitoso.

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I peones e il loro ruolo

Mastella: «Il presidente della Repubblica stavolta, come tutte le altre volte, lo decideranno i peones. Sono i più lucidi perché non ossessionati dal fiato sul collo dei leader, che stupidamente li snobbano. Ma in verità cè’è da chiedersi: ci sono ancora i leader o anche loro sono dei peones?».

Giusto interrogativo. Raffaele Volpi, ex presidente leghista del Copasir non dovrebbe essere un peone e invece dice di esserlo: «A parte i pochissimi che vivono nel cerchio magico dei capi partito, tutti gli altri - spiega il simpatico ed espertissimo parlamentare amico di Bossi in un angolo del cortile di Montecitorio - sono peones. E io voglio lanciare un appello: adelante, adelente, peones, il Capo dello Stato lo scegliamo noi». Verissimo, e infatti mentre i leader s’incontrano e trattano, i peones aspettano in Transatlantico o in giro per Roma il loro momento: quando il gioco sarà vero e loro sceglieranno nell’urna, anzi nel catafalco e poi nell’insalatiera, la figura che li garantisce di più, che conoscono meglio, che gli è più simpatica».

Chi sono 

Mai sottovalutarli i peones. Possono appartenere ai gruppi più vari, ma in generale sono dei moderati - a parte qualche ex grillino - o comunque dei custodi della stabilità, a cominciare dalla propria, e dunque i peones in queste ore vengono dati per non filo-Draghi (crollerebbe il governo, finirebbe la legislatura e tutti a casa) e moderatamente propensi a una candidatura quirinalizia che non produca strappi. Un calcolo numerico dei peones si può fare. Perché sono tutti peones quelli che non hanno cariche all’interno del proprio gruppo parlamentare o ai vertici di Camera e Senato. Ma spesso peones sono anche, o perfino, questi. Dei 113 del Gruppo (o Fritto) Misto i parlamentari semplici sono tutti, pure quelli che hanno qualche gallone o pennacchio. Nella Lega, a parte Salvini e altri due o tre fedelissimi ma subordinatissimi al Capitano, gli altri contano poco negli equilibri politici, e visto che il Carroccio è un «partito leninista» (autodefinzione), lì comanda il capo e gli altri si adeguano. Qualcuno magari mal volentieri e perfino nella Lega il peone-franco tiratore-libero pensatore può esserci e chissà che si etta a sparare sulla Casellati alla quarta votazione - se Queen Elizabeth sarà in campo - per poi aspettare che il contesto si aggiusti nei voti successivi su altri candidati.

Il centrosinistra

Nel Pd, Letta è appena arrivato in Parlamento, i gruppi di Camera e Senato sono ex renziani, i capicorrente contano assai ma ogni corrente è fatta di peones al netto dei vari liderini e questo rende, anche per i dem, la sfida del Colle una partita piena di incertezze perché il peone non dà mai certezze e i capo partito di oggi non sono come quelli della Dc che i peones li vezzeggiavano. Dice uno di loro, in Transatlantico: «Letta? Non mi ha mai rivolto la parola». Nel segreto del catafalco questa mancanza di riguardo, se l’Enrico dovesse proporre Draghi o bocciare Casini o avanzare una rosa che può non piacere, rischia di contare assai e non a favore del segretario del Nazareno. Chi muove i peones - i 101 anti-Prodi peones erano ma alcuni caricati a pallettoni dai capicorrente e altri vogliosi di togliersi lo sfizio di abbattere Il Professore - decide la partita. Non a caso il centristi veri, di origine democristiana, anche in queste ore ai peones guardano con simpatia e rispetto, come è giusto che sia. Il Pd ha 135 grandi elettori? Sì. E quanti peones? Un centinaio. Leu è truppa di ascari della sinistra. M5S non ne parliamo. Conte ha fatto 5 vicepresidenti e gli altri sono o big come Di Maio (ma oltre Di Maio, chi? Solo lui) oppure una massa di semplici parlamentari incontrollabili che possono rivelarsi sorprendenti e contundenti rispetto ai giochi dell’ex premier, ammesso che si capisca quali siano. Su 230 grandi elettori stellati, 229 sono peones. Quasi il 110 per cento è la media di peones in M5S, mentre quella degli altri partiti è il 90.

Il centrodestra

In Forza Italia è peone chiunque non abbia rapporti diretti con Berlusconi. Siccome non li ha più nessuno - «Chi l’ha visto? Chi l’ha sentito? Che cosa pensa il Presidente? È a casa o in ospedale?»: è quello che tutti chiedono a tutti in queste ore a Montecitorio nei capannelli di berlusconiani - si possono annoverare tutti nell’esercito dei peones tranne la Bernini, capogruppo al Senato e Barelli alla Camera, Tajani soprattutto (lui sempre in contatto con Silvio ma Antonio è europarlamentare e non deputato o senatore), Andrea Ruggieri che con il cavaliere ha un rapporto diretto, naturalmente la senatrice Ronzulli che è assistente  del re di Arcore, Sestino Giacomomi e pochi altri. «Io da peone ho aiutato Silvio a trovare altri peones in tutti i partiti che potessero aiutarlo ad andare sul Colle», dice Sgarbi: «Ma l’operazione ce l’hanno interrotta». Rotondi: «Il peone è lucido e importante, un baluardo della democrazia che nella segretezza del voto dice come la pensa e fa pensa a pensarla con la propria testa». Ma per chi voteranno i peones? «Per quello che li spaventa di meno». Più o meno tutti i quasi 60 delegati regionali di centrodestra e centrosinistra sono peones. Tranne il governatore campano De Luca («Io voto con la mia testa»), Zaia e Fedriga, Toti e pochissimi altri. 
E insomma, 1009 grandi elettori e 950 peones: occhio a non sottovalutarli.

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