Vittorio Parsi
Vittorio Parsi

Salute, Borse, politica/ La lezione planetaria dal contagio del secolo

di Vittorio Parsi
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Giovedì 30 Gennaio 2020, 00:05
«Quando c’è la salute c’è tutto», recita un vecchio adagio popolare. Ed è qualcosa di cui spesso ci scordiamo, di quanto lo stare bene sia la premessa per poter godere di qualunque altra opportunità. Ma è quando si diffonde la paura del “contagio”, il rischio della pandemia che allora ci ricordiamo della dimensione collettiva, pubblica della salute. Beffardo che il nuovo coronavirus che la Cina ci regala a diciassette anni dal suo predecessore (la Sars, meno contagioso ma per ora assai più letale) sia stato reso noto al mondo il 31 dicembre, quasi in coincidenza con il sessantesimo anniversario della morte di Albert Camus l’autore di La Peste (il 4 gennaio).

Delle sue origini si sa poco. Qualcuno insinua che potrebbe essere un virus sfuggito da qualche laboratorio per la guerra batteriologica di Pechino. Si disse anche dell’ebola, quando comparve, alludendo però ad altre superpotenze. Probabilmente non è vero nell’un caso e nell’altro e sappiamo che in materia di sicurezza persino le democrazie non sono di una trasparenza assoluta.

Almeno qualcosa l’affaire Wikileaks dovrebbe averci insegnato in tal senso. Ma lo stesso esplodere di quello scandalo ci ha anche ammonito che, con tutte le sue imperfezioni, le democrazie sono gli unici sistemi politici nei quali l’occultamento della verità è più difficile. Questo perché la frammentazione del potere, la miriade di soggetti che in qualche misura ne detengono una frazione e sono in grado di usarla, consente quella competizione anche aspra tra interessi e quella “terzietà” delle istituzioni che costituisce tuttora la migliore chance di sottrarsi al tentativo del sovrano di controllare innanzitutto i corpi, per dirla con Foucault.

Mentre quindi osserviamo compiaciuti o perlomeno sollevati che questa volta la reazione delle autorità di Pechino sia stata più tempestiva e trasparente rispetto a quanto avvenne con la Sars, non possiamo però non interrogarci se comunque non sia stato perso tempo prezioso, considerando che inizia a serpeggiare il sospetto che i primi casi abbiano potuto verificarsi già un mese prima di quanto ammesso dalla Cina. Ora Pechino ci ammalia con la sua capacità di tirar su un ospedale in meno di una settimana (e fioriscono i time lapse sui siti dei giornali di mezzo mondo), mentre sigilla una città di enormi dimensioni in poche ore, facendone un gigantesco lazzaretto.

Efficienti come sempre questi cinesi e rapidi nell’adottare misure draconiane senza doversi curare dei giudici del Tar. Già, ma neppure di quel “giudice a Berlino”, a cui alludeva il mugnaio di Bertolt Brecht vessato da Federico il Grande. E aveva ragione, perché persino nel Polizeistaat di preliberale memoria nemmeno il sovrano era sciolto dall’obbedienza alle sue stesse leggi. Invece la rapidità e la facilità relativa con cui il Partito comunista cinese isola l’area d’origine dell’infezione ci fa riflettere su un paradosso.
 
Ovvero che proprio la sua stessa natura di potere monolitico, privo di sostanziali contrappesi, abbia costituito il principale limite alla verifica e al miglioramento delle condizioni igieniche spaventose di quel mercato di animali vivi da cui il tutto è probabilmente originato. Limiti del potere incontrollato?

Nel frattempo si stima che l’impatto della pandemia potrebbe costare all’economia cinese una minor crescita di 1,2 punti percentuali di Pil, cioè molto più del danno provocato dalla guerra dei dazi di Trump. Un effetto che già inizia a riflettersi, anticipato e probabilmente ingigantito, come sempre, sulle borse mondiali e che potrebbe danneggiare tutti, non solo i cinesi. È un monito sul legame tra l’elemento materiale (il virus) e quello immateriale (la paura del contagio), dove il secondo amplifica il primo e in questo riproduce lo schema del rapporto tra economia reale e finanza.

Potremo difenderci dal contagio chiudendoci? No, anche se le quarantene e il temporaneo rallentamento della velocità e della vastità degli scambi di merci e dei movimenti delle persone potrebbe aiutarci, fornendo più tempo allo sforzo collettivo di individuare un vaccino: il solo possibile.

I virus del resto non conoscono frontiere, ripensando all’influenza spagnola, che sul finire della “Grande guerra” attraversò trincee e fili spinati dove per quattro anni gli europei si erano massacrati nel nome delle sovranità in conflitto tra loro: perché «ne ha uccisi più la spagnola che la guerra», come si diceva e con ragione nel 1920.
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