Vittorio Emanuele Parsi
Vittorio Emanuele Parsi

Sotto impeachment/Il processo a Trump e gli effetti fino all’Italia

di Vittorio Emanuele Parsi
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Venerdì 20 Dicembre 2019, 00:00 - Ultimo aggiornamento: 07:36
Gli americani non votano pensando alla politica estera, ma è fin troppo ovvio che le conseguenze delle loro elezioni presidenziali hanno “un certo peso” sulla politica mondiale. Molto meno scontato è quanto la stessa campagna elettorale riesca a influenzarla. 

Comunque la si pensi sull’impeachment («una caccia alle streghe» o un dovere costituzionale), quello che è certo è che se le modalità d’azione e di comunicazione di Trump stanno esasperando l’equilibrio costituzionale degli Usa stanno anche sottoponendo a una pericolosa torsione l’ordine internazionale. A rendere plasticamente evidente ciò che ci aspetterà da qui al prossimo novembre, ci ha pensato Vladimir Putin, che ha per primo definito «sciocchezze» le accuse alla base dei capi di imputazione formulati dal Congresso.

Come è stato osservato in queste settimane, Trump sta deliberatamente giocando la carta della polarizzazione («buttarla in caciara», si direbbe a Roma), nella convinzione che ciò chiamerà a raccolta il suo elettorato e continuerà a tenere in ostaggio l’establishment repubblicano, che non potrà fargli mancare il suo appoggio. È la logica del «tanto peggio, tanto meglio», che però ha un non detto.

Il non detto è il seguente: tanto meglio per Trump, tanto peggio per quell’ordine internazionale, sempre più fragile, che sul perno americano continua purtuttavia ad appoggiarsi. 

La politica estera, a maggior ragione quella di una superpotenza, presenta sempre un certo grado di riservatezza e complessità ed è consolidata convinzione che dovrebbe essere protetta dagli eccessi dell’opinione pubblica e dalla ferocia del dibattito politico più sgangherato e pretestuoso. Non che essa non possa produrre ampie e profonde lacerazioni anche dentro l’establishment (si pensi alla guerra del Vietnam), ma si vorrebbe che esse riguardassero il merito di questioni che, proprio per la loro rilevanza e consistenza, non meritano di essere strumentalizzate ad esclusivo uso elettoralistico. 

Era questo il timore, l’unica vera, profonda critica che un suo ammiratore come Alexis de Tocqueville muoveva alla democrazia americana, quando essa era ancora in erba e gli Stati Uniti non contavano nulla nel mondo.
Se consideriamo alcune recenti decisioni assunte dall’amministrazione Trump in politica estera, come il ritiro dalla Siria o gli stop and go sulle trattative con i talebani in Afghanistan o il totale, negligente disimpegno in Libia o le polemiche sulla Nato, non possiamo non constatare che ogni passo sia stato intrapreso tenendo in altissima ed esclusiva considerazione i sondaggi interni e gli umori dell’opinione pubblica domestica, con tanti saluti al deterioramento delle situazioni, alle preoccupazioni degli alleati e agli stessi interessi permanenti americani. 
Difficile immaginare che la tendenza non si accentui a mano a mano che il voto si avvicina. Si tratta di dossier importantissimi per l’Italia. In Afghanistan continuiamo ad avere alcune centinaia di uomini e donne schierati (come in Iraq). Ma se la presenza militare Usa scende sotto un certo livello e se vengono presi accordi a nostra insaputa, i rischi anche per i nostri militari aumentano in maniera intollerabile. 

In Libia il vuoto lasciato dagli americani - unito all’inconsistenza militare e alla divisione politica europee - ha spalancato le porte del Mediterraneo centrale a Russia e Turchia, rendendo contendibile uno spazio vitale per la nostra sicurezza (quella vera). 

Difficile non constatare che in tanti teatri per noi strategici proprio la latitanza americana ha consentito ad altri di perseguire l’escalation muscolare, nella ragionevole prospettiva di non dover pagare dazio. E a proposito di dazi, dovremmo infine chiederci quanto la politica commerciale verso Cina ed Europa sarà ulteriormente ostaggio della campagna elettorale e dell’imprevedibilità del presidente. Per i nostri interessi nazionali è decisamente questo ciò che conta di più, e non il ritenerlo il campione del populismo sovranista o il paladino della lotta contro l’establishment.
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