Vittorio E. Parsi
Vittorio E. Parsi

«Covid in laboratorio»/ A Trump serve il nemico Cina

di Vittorio E. Parsi
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Lunedì 4 Maggio 2020, 00:07
Il tempo è galantuomo. In politica, poi, i tempi occorre comunque capirli e saperli interpretare: perché si maneggia quel bene prezioso e fragile che è il futuro degli altri, con il suo carico di timori, speranze, sogni. Quelli che ci aspettano saranno, sono già, tempi difficili e ardimentosi, nei quali i politici dovranno essere insieme idealisti e pragmatici e non ideologici e cinici.

Dall'inizio dell'esplosione della pandemia negli Stati Uniti, Donald Trump ha spesso accusato aspramente la Cina (ieri l'ultima volta) di aver prodotto artificialmente e diffuso accidentalmente il Covid-19. Che Pechino sia stata colpevolmente intempestiva nell'ammettere e comunicare l'esistenza di un nuovo Corona virus è difficilmente contestabile. Sulla natura artificiale del virus, invece, la stessa intelligence americana sembra smentire il suo presidente. Allora perché Donald Trump lo fa?

La risposta è: per ragioni di politica internazionale ed interna, con una strategia che prova a tenere insieme i due ambiti. Da un lato il presidente cerca di contrastare l'offensiva mediatica cinese, volta a far dimenticare che il Paese che è guarito per primo è anche il Paese nel quale il virus si è manifestato per primo, contagiando successivamente il mondo. Questo è un fatto acclarato che non dovremmo mai dimenticare. Trump vuole quindi impedire che il soft power di Pechino, la sua capacità di ergersi a modello e di attrarre a sé le altre nazioni, finisca coll'essere uno dei più paradossali risultati della pandemia. Peraltro il presidente sa bene che il modo in cui la sua amministrazione si è mossa nell'emergenza Covid-19 tanto sul fronte interno quanto verso i Paesi terzi, amici ed alleati compresi ha corroso ulteriormente il soft power americano. È l'applicazione di uno dei più classici assunti teorici del realismo politico: quello dei vantaggi comparati, per cui, in un gioco a somma zero, quel che io guadagno può venire solo da ciò che tu perdi, e viceversa.

Si tratta di un principio che il liberalismo politico (la più americana delle dottrine delle Relazioni Internazionali) ha sempre contestato e che non a caso anche i leader politici d'Oltreoceano hanno sempre applicato con cautela e moderazione: perché tutta la struttura dell'egemonia americana nel mondo (dopo il 1945 e ancor più dopo il 1989) si è sempre basata sull'assunto opposto. Ovvero che uno dei grandi benefici di un ordine internazionale liberale, modellato dalla e sulla leadership statunitense, offrisse vantaggi per tutti, vantaggi assoluti. In fondo era la versione internazionale del motto posto sul sigillo della Repubblica stellata: e pluribus unum.

Veniamo così alla dimensione interna. Avrete tutti notato che, mentre incalza la Cina, il presidente attacca sistematicamente l'Oms, accusata di essere stata troppo acquiescente verso Pechino, di averne taciuto i comportamenti colposi o colpevoli. Muovere queste accuse, mentre i governi di molti Paesi del mondo cercano di unire gli sforzi per sconfiggere il virus, si direbbe poco pagante sul piano internazionale. In realtà, alzando la posta, Trump si augura di ridimensionare lo scandalo domestico per la sua gestione della crisi. Dal consiglio di bere o iniettarsi disinfettante al divieto presidenziale opposto al professor Anthony Fauci di tenere un'audizione di fronte al Congresso.
Qui la strategia di Donald Trump è piuttosto evidente: chiamare a raccolta gli americani sotto la bandiera a stelle e strisce, additando il nemico esterno (la Cina), incriminato di aver sferrato (sia pur per negligenza) un attacco biologico contro gli Stati Uniti, mentre manipolava politicamente l'Oms per nascondere i suoi errori.

Se riuscirà a provare le sue tesi, o a convincere la metà più uno degli elettori di novembre che la Cina ha costruito il Covid-19 e l'Oms l'ha coperta, avrà vinto. Va detto che in piena campagna elettorale una manovra del genere è già comunque molto complicata ed è rischiosa persino per un amante del rischio come Donald Trump. L'invocazione del nemico esterno è infatti tanto più efficace quanto più proviene da un leader in grado di presentarsi come un alfiere credibile dell'interesse nazionale, un interprete di quella pluralità della quale si propone di fare sintesi.
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