Sebastiano Maffettone

Democrazia e web/ Quell’illusione di contare senza sapere

di Sebastiano Maffettone
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Lunedì 10 Giugno 2019, 00:00
Tradizionalmente, erano la tv e prima ancora la radio a fare la differenza in politica. John Kennedy batté Richard Nixon proprio perché apparì più “cool” nel decisivo confronto televisivo. Proprio per questo, qualsiasi politico con qualche ambizione si avvale di un nutrito apparato di comunicazione, che gli darà indicazioni sul tipo di vestito, sul colore della cravatta (se è maschio), oltre che - naturalmente - sugli argomenti da trattare per impressionare la sua audience di turno.
Già, ma che dire quando qualcosa del genere diventa onni-pervasivo nell’età digitale? Che pensare se il risultato di un’elezione è costruito via web in maniera assai simile alla campagna pubblicitaria per la vendita di un dentifricio? Sono queste le domande da cui è partita una ricerca promossa di recente dall’Associazione Amici della Luiss. L’intervento dell’editore Francesco Gaetano Caltagirone ha aperto un dibattito su queste colonne. 
Che la rete sia indispensabile per fare politica oggi è una certezza. La campagna di Obama contro McCain (2008), per fare un esempio, fu vittoriosa anche perché attrasse il voto giovanile, nero e latino, e ci riuscì tramite la costruzione di un sito efficace e l’uso sistematico dei social, dove i followers di Obama su Facebook e Twitter triplicavano quelli del rivale. E simili cose si possono dire per la campagna vincente di Trump su Clinton (2016). Ci sono in sostanza tre tipi di dati sul mercato a disposizione degli acquirenti: i dati dei partiti o gruppi politici, i dati collegati alla pubblicità, e in fine quelli raccolti da terzi (data providers, domini web, istituti di ricerca).

L’analisi del fenomeno Cambridge Analytica, connesso alla elezione vittoriosa di Trump, ha poi introdotto una significativa novità, inserendo nel pacchetto offerto ai politici la valutazione psicometrica delle intenzioni dell’elettore. Ciò vuol dire che al di là delle informazioni sulle tue appartenenze politiche, sui tuoi gusti come consumatore e così via, si può tentare di costruire un “profilo” da cui emergano i tuoi valori profondi e la tua identità psicologica. Si tratta del cosiddetto micro-targeting politico, che permetterebbe (il condizionale è d’obbligo) di influenzare il tuo voto mandandoti messaggi personalizzati che possano poi dettare scelte politiche. Netflix mi scrive che dovrebbe piacermi in certo film (e spesso ci azzecca…), l’intellighentsia Silicon Valley fa qualcosa di simile quando scende in politica, al tempo stesso in cui incoraggia le debolezze, favorisce le inclinazioni e radicalizza le opinioni di ognuno di noi. Da questo punto di vista, le campagne politiche altro non sono che forme di marketing sofisticato in cui la capacità di microtargeting del consumatore-elettore risulta decisiva. Scegliere un candidato nell’era dei like somiglia molto a decidere quale gelato ci piace di più. E sul punto è davvero difficile non essere d’accordo con le preoccupazioni sul primato della “gradevolezza” in politica.

C’è poi un altro aspetto da segnalare sugli inganni di una falsa partecipazione al processo democratico. Si tratta di ciò che potremmo definire narcisismo di massa. Un fenomeno che finisce col rappresentare un pericolo per la democrazia effettiva. È la sindrome per cui ciascuno vuole dire la sua, al di là della conoscenza che ha dell’argomento sul quale interviene. Questa corsa illusoria a contare, per essere in definitiva contati, crea una bolla di opinioni e chiacchiere che è tossica. È il passaggio al mondo del “qualcunismo” (intervengo per sentirmi qualcuno) che genera il classico qualunquismo. Insomma, le masse volendo essere protagoniste, per fenomeno emulativo, non delegano a chi sa, in base alla convinzione di contare quanto chiunque altro. Tutto questo è figlio dell’illusione di contare di più. Siamo alla somma delle singole opinioni come volontà generale, un’eredità fallace che è figlia di Rousseau. Anzi è la vittoria di Rousseau ( inteso qui anche come sinonimo della famosa piattaforma di Casaleggio)sullo spirito critico di Voltaire. L’algoritmo che scardina la democrazia rappresentativa. Ecco che si arriva all’uno vale uno tanto in voga da qualche tempo.

Non è una sorpresa che un fatto del genere si accompagni a una crisi delle liberal-democrazie nel suo modello classico basato sulla rappresentanza. Secondo molti, oggi come oggi, la liberal-democrazia non funziona più. Siffatta opinione è favorita da un pensiero collegato al web. Nell’età digitale in cui viviamo vige la trasparenza assoluta: tutti sanno tutto in tempo reale. E la politica, in queste condizioni, equivale a un referendum continuo. A ogni istante, i cittadini esprimono un giudizio politicamente rilevante sui fatti del giorno. Per cui, la rappresentanza - che è invece durevole - non avrebbe molto più senso. Da qui la tentazione di dire «Meglio la Cina che Westminister!», cosa che parecchi commentatori eruditi - e non solo sprovveduti - dicono a mezza voce. Per chiunque sia consapevole della storia politica del secolo scorso, tutto ciò appare invece assai pericoloso. E non gli resta che auspicare maggiore riflessione critica in materia. Che il digitale abbia cambiato non solo la politica ma tutto l’arredo del mondo è indiscutibile. Ma che noi dobbiamo cercare di capire meglio quanto sta accadendo sembra ovvio. Se non altro per non accettare passivamente forme di controllo e sorveglianza che vengono dal mondo on line e dal potere che gli sta dietro.
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