Nella storia contemporanea, come in quella meno recente, due istituzioni in particolare hanno consentito l’accesso ai vertici ai meno privilegiati: lo sport e la Chiesa cattolica. Questa opportunità è stata ovviamente concessa anche in altri settori: Napoleone diceva che ogni soldato aveva nello zaino il bastone di maresciallo; abbiamo avuto medici, scienziati, politici, imprenditori e persino intellettuali usciti da ambienti miseri e da situazioni disperate. Ma in fondo erano eccezioni. Nella Chiesa no: accanto a pontefici di famiglia nobile come Leone X, Giulio II ed Eugenio Pacelli abbiamo avuto dei santi usciti da famiglie poverissime, come Pio X, o di dignitosa rusticità come Giovanni XXIII. Nello sport è uguale. Le favelas di Rio, i ghetti di Harlem e persino gli sperduti villaggi del centro Africa hanno prodotto delle star diventate ricche e famose. L’agonismo è la forma più antica di pacifico e rapido avanzamento sociale: Lisia e Demostene, Catone e Giovenale si lamentavano che i discoboli, i pugili e i conducenti di bighe fossero più amati, e pagati, degli insegnanti.
Lo stesso vale per lo spettacolo in genere: quando Federico il Grande contestò ad alcune teatranti di guadagnare più dei suoi ufficiali, una di loro rispose: «Allora, Sire, venga a far ballare i suoi generali!». Anche qui, nulla di nuovo sotto il sole. Trascurando la maestà della storia ecclesiastica, e limitandoci alle attività ludiche, il calcio è ormai da tempo la più diffusa, e di conseguenza la più retribuita. Ogni Paese ha dei forti concorrenti, che però sono sempre diversi: nel Commonwealth il rugby e il cricket; negli Usa il football e il baseball; nei Paesi nordici l’hockey e lo sci, e via dicendo: ma il calcio è come un minimo comune denominatore. E infatti le squadre di tutto il mondo hanno realizzato per prime un’unificazione universale: ognuna di loro è una piccola società delle nazioni con giovani di etnia, cultura, estrazione sociale e religione diversa. Il calcio è interrazziale e apolitico. Il calcio è democratico.
Questa globalizzazione, non ha tuttavia diluito il senso di appartenenza dei tifosi. Al contrario, l’ha esaltata. Ancora oggi per molti di loro la squadra è una sorta di fede, la maglia è una bandiera, la conquista di una coppa un’affermazione di sovranità. Anche se ormai quasi nessuna compagine importante arruola giovani del suo vivaio cittadino o regionale, e la più parte è formata da stranieri, l’attaccamento identitario rimane, talvolta così esasperato da degenerare in manifestazioni violente.
Per questo motivo il tentativo della costituzione della Superlega è miseramente fallito nello spazio di un mattino: perché questi sentimenti hanno prevalso sui colossali interessi finanziari sottostanti, e persino sul rischio di fallimento di alcune storiche società calcistiche.
Eppure questi ultimi avrebbero dovuto saperlo, perché gli esempi che avevano davanti erano numerosi e della più varia natura. Gli ebrei di Gerusalemme si fecero massacrare pur di evitare che le immagini profane contaminassero il loro tempio; i primi cristiani preferirono il supplizio alla semplice formalità di un rito propiziatorio; soldati musulmani arruolati nell’esercito inglese rischiarono il plotone di esecuzione pur di non toccare il grasso di porco che lubrificava le cartucce.
Si trattava, è vero, di fede religiosa, ma quella politica non fu da meno: migliaia di individui accettarono il licenziamento, l’esilio, la prigione e addirittura il patibolo, pur di non piegarsi alle imposizioni delle dittature. E lo stesso, sia pur in circostanze e con conseguenze assai meno drammatiche, avvenne in tanti altri settori, dall’arte fino alle competizioni agonistiche. Beethoven stracciò la dedica dell’Eroica quando seppe che Napoleone voleva farsi imperatore; Toscanini dovette emigrare per essersi rifiutato di dirigere l’inno fascista; Cassius Clay perdette il titolo per non arruolarsi; e alcune edizioni delle Olimpiadi andarono deserte perché organizzate da regimi di dubbia democrazia.
Si tratta ovviamente di esempi assai meno commoventi del sacrificio dei martiri e dei patrioti, ma il principio è sempre lo stesso: vi sono circostanze in cui il senso di appartenenza - a una religione, a un’ideologia, a un territorio, a una famiglia e finalmente a un club di calcio - prevale sugli interessi immediati di altra natura.
Il fallimento della Superlega ci offre così lo spunto per due considerazioni, una lieta e una amara. La prima è che un qualche principio di solidarietà ideale esiste ancora, e riesce addirittura a manifestarsi ed imporsi in forma spontanea e pacifica. La seconda, quella amara, è che questa convergenza si è manifestata in un settore, per quanto rilevante e sensibile, comunque marginale rispetto agli immensi problemi attuali. Fa un certo effetto vedere i nostri politici che, dopo essersi divisi e quasi sbranati sulla gestione della pandemia con centomila e passa morti, si trovano ora concordi nel ripudiare il colpaccio dei paperoni del pallone.
E ancor di più lo fa la corale protesta dell’Europa, che sulla contrattazione e la distribuzione dei vaccini si è dimostrata di un’inefficienza vergognosa e di una divisione egoistica. Ma non si sa mai. Come la vittoria di Bartali al Tour de France riunì a suo tempo il Paese scosso dall’attentato a Togliatti, chissà che questa singolare e provvisoria convergenza non riavvicini i membri della Ue europei incarogniti da una gestione deludente della pandemia.