Quando, come avviene oggi, si stanno ridisegnando i rapporti di potere fra i diversi Paesi, tutti fanno politica estera. La fanno, nell’intero scacchiere mondiale, le grandissime potenze come Cina e Stati Uniti. La porta avanti la Russia in uno scacchiere regionale, sempre più allargato, che comprende non solo l’Ucraina, ma tutto il Medio Oriente, la Georgia, l’Armenia e tanta parte dell’Asia Centrale. Non parliamo poi dell’impressionante attivismo turco che, dal Medio Oriente si estende a Ovest verso la Libia, a Est verso il Golfo e l’Asia Centrale e a sud nel continente africano. Non possiamo infine trascurare altri esempi, come l’Arabia Saudita, che sta stringendo rapporti con l’ “arcinemico” Quatar, gli Emirati che, sotto sotto, dialogano con l’Iran e perfino il Ruanda, con le sue attenzioni verso il Congo e il Mozambico.
L’unico assente in questa fase di generale ristrutturazione del globo è l’Unione Europea, nonostante la sua impressionante dimensione economica e i grandi progressi recentemente compiuti in questo campo.
Per lungo tempo abbiamo tacitamente sperato di potere giocare un rispettato ruolo di mediatore ma oggi, nella grande partita della politica mondiale, non stiamo giocando né il ruolo di giocatore né quello di arbitro. Siamo solo un pallone preso a calci, tanto dai veri campioni, quanto da atleti di ben minore livello.
Tutto questo per un motivo molto semplice: ci siamo obbligati a votare all’unanimità. Di conseguenza, il verbo con cui siamo costretti a concludere tutte le nostre riunioni non è “decidere”, ma “auspicare”. E’ chiaro, invece, che non si può nemmeno partecipare a una missione di pace se un Paese sta da una parte e un altro dall’altra. Mentre noi auspichiamo, gli altri decidono.
Tutto questo avviene anche quando il dibattito si svolge su livelli intellettuali e con modalità di intervento del tutto encomiabili, come nel caso delle audizioni sul futuro dell’Europa recentemente tenute di fronte alle commissioni degli Affari Esteri e degli Affari Europei del Parlamento Italiano.
Audizione giunta a conclusioni perfettamente condivisibili, sia sulla necessità di una maggiore cooperazione militare che sulla costruzione di una vera e propria polizia di frontiera a livello europeo. Obiettivi lodevoli ma che, anche se raggiunti, serviranno a ben poco, per il fatto che manca la possibilità di decidere se, come e dove intervenire e non esiste una comune politica per l’emigrazione.
Un’impotenza che si sta esprimendo con particolare evidenza nel caso dell’Ucraina, dove il conflitto tra le politiche dei Paesi europei si manifesta all’interno della stessa alleanza della Nato, nell’ambito della quale i paesi baltici esprimono, nei confronti della Russia, una posizione ancora più radicale di quella americana. Non solo essi diffidano del pur tenue inizio di dialogo fra Putin e Biden, ma avanzano persino il sospetto che gli Stati Uniti, in accordo con Germania, Gran Bretagna, Francia e Italia, abbandonino i baltici al proprio destino.
Una grande realizzazione come l’Unione Europea non può andare avanti in questo modo.
Abituati a vivere nel nostro confortevole nido, reso possibile proprio dall’esistenza dell’Unione Europea, non siamo più in grado di renderci conto di come siamo ormai diventati protagonisti del tutto secondari nel mondo d’oggi.
Un seme di speranza per un cambiamento di rotta è nato pochi mesi fa con il lancio della conferenza per il futuro dell’Europa. Una conferenza aperta al contributo di tutti i cittadini ma anch’essa, pur costituendo un positivo strumento di confronto, vede il proprio seme soffocato dalla solita condizione dell’unanimità, unita al rifiuto, da parte di alcuni paesi, di procedere a qualsiasi revisione dei trattati esistenti.
Rispettando naturalmente i generosi “auspici” che usciranno da questa conferenza, siamo però obbligati a fornirci subito degli strumenti necessari per prendere le decisioni dalle quali dipenderà il nostro futuro.