Alessandro Campi
Alessandro Campi

Soluzione politica/ La voce grossa dei leader e il ruolo dell’Europa

di Alessandro Campi
6 Minuti di Lettura
Mercoledì 23 Marzo 2022, 00:03

In molti ieri hanno notato il cambio di registro linguistico, e dunque anche politico, operato da Zelensky durante il suo intervento al Parlamento italiano. Rispetto ad altri appuntamenti dello stesso tipo non ha illustrato scenari apocalittici (lo spettro di una “terza guerra mondiale”) e non ha chiesto interventi militari diretti. 
Ha cercato piuttosto di rappresentare la sofferenza della sua nazione ricorrendo ad una immagine altamente evocativa: ha paragonato la distruzione (reale) di Mariupol con quella (immaginaria) di Genova. Come reagirebbero gli italiani se vedessero una loro storica città – scelta tra quelle più care al nostro immaginario collettivo – sottoposta ad un martirio di bombe e uccisioni? Ha ovviamente chiesto sanzioni ancora più dure per l’economia della Russia, ma ha additato Putin, non i russi, come l’unico responsabile della guerra in corso. Ha ricordato il dramma dei bambini uccisi, le violenze perpetrate dai militari di Mosca sulla popolazione civile, ma ha soprattutto chiesto per l’Ucraina la fine rapida delle ostilità. «Kiev deve avere la pace come deve averla Roma». Anche se ciò non può significare alzare le mani in segno di resa o darla vinta all’aggressore accettandone le imposizioni.

Non ha fatto – sorprendentemente – riferimenti alla storia italiana: la resistenza, la lotta al fascismo, ecc. E nemmeno ha citato qualche autore caro alle nostre memorie patrie e universalmente conosciuto. Chissà, qualcuno potrebbe avergli detto del rapporto conflittuale che gli italiani hanno con il loro passato, anche recente. Meglio limitarsi al registro sentimentale e affettivo, richiamando l’amicizia tra i due popoli e i reciproci aiuti umanitari in occasioni di calamità naturali ed emergenze. Gli appelli al cuore con gli italiani funzionano sempre. Perché dunque un simile cambiamento nei toni, nelle parole e negli argomenti? Secondo alcuni il dialogo telefonico avuto al mattino col Papa, che non a caso ha ricordato in apertura del suo breve discorso, potrebbe averlo indotto ad adottare una postura diversa: meno da capo militare (sebbene anche stavolta si sia presentato con la solita maglietta da soldato) e più da uomo politico la cui lotta non riguarda solo un popolo – mosso da sentimenti di fiero nazionalismo – ma l’umanità tutta. In questa guerra ci sono in ballo, per come la vede Papa Francesco, non questioni territoriali o ideologiche, ma la difesa di vite umane innocenti e un elementare sentimento di giustizia nei rapporti tra nazioni. 

Ma nel presidente ucraino potrebbe anche essere subentrata una certa realistica rassegnazione, che l’ha spinto a non insistere più sui soliti tasti. Dall’inizio della guerra ha tenuto già sette discorsi simili, diretti ai parlamentari inglesi, statunitensi, francesi, tedeschi, europei e israeliani. Con i suoi appelli accorati a difendere l’Ucraina a qualunque costo e con ogni mezzo – adattati ogni volta ai diversi uditori con un eccesso di teatralità e di mimetismo retorico che gli ha causato anche qualche problema (ad esempio in Israele col suo inopportuno richiamo all’Olocausto) – Zelensky ha ottenuto tutto quel che poteva ottenere: soldi, aiuti umanitari, armamenti, sostegno logistico e d’intelligence, l’isolamento politico-economico della Russia da parte dell’intero blocco occidentale, ma oltre non ci si può spingere, come gli è stato spiegato a chiare lettere, a meno di non voler davvero portare il mondo sull’orlo dell’abisso atomico.

Reiterare richieste impossibili all’Italia, dopo averle fatte senza risultati a realtà politicamente ben più importanti, non avrebbe avuto senso. Anche se dal nostro governo ha comunque incassato l’impegno di Draghi ad aiutare in ogni modo, anche sul piano militare, l’eroica resistenza degli ucraini contro l’invasore. Oltre all’auspicio che l’Ucraina possa, quanto prima, entrare a fare parte dell’Unione europea. C’è tuttavia un’altra possibile spiegazione per il diverso tono usato ieri da Zelensky: dopo quasi quattro settimane di guerra – tragica in termini di distruzioni per l’Ucraina, diversa dalla parata in armi che Putin aveva probabilmente pianificato immaginandosi come il liberatore di un Paese che in realtà lo odia profondamente – sempre più si sta diffondendo la consapevolezza che la soluzione diplomatico-negozionale è quella che bisogna avere il coraggio di intraprendere al più presto.

Non solo per ragioni etico-umanitarie. Ma per gli altri motivi, tragicamente prosaici, che lo stesso Zelensky ha indicato nel suo breve intervento. Se questa guerra dovesse continuare ancora per mesi – o addirittura cronicizzarsi come è accaduto per altri conflitti recenti in giro per il mondo – quello che ci aspetta, non parliamo solo dell’Ucraina, ma dell’intera Europa e forse del mondo, è uno scenario fatto di crisi economica e privazioni materiali, di carestia alimentare e di sconquassi sociali causati dal crescere inevitabile, proprio a causa della povertà dilagante, delle ondate migratorie. Già se ne vedono i primi terribili segnali: razionamenti nelle forniture, beni che scarseggiano, milioni di profughi. E siamo a nemmeno un mese dallo scoppio delle ostilità!

Fare la guerra necessaria, pensare alla pace possibile. E’ una vecchia regola. Nessuno in questo momento può chiedere agli ucraini di arrendersi senza combattere: sarebbe inutile oltreché immorale. Nessuno al tempo stesso sembra in grado di far desistere Putin dai suoi obiettivi bellicosi: se lo facesse perderebbe la faccia e forse anche il potere. Il fatto che entrambi siano formalmente intenzionati a continuare la guerra, accettandone i costi terribili, il fatto altresì che questo scontro armato, per la piega che sempre più sta prendendo, difficilmente potrà avere un vincitore netto sul campo, pone paradossalmente le condizioni perché si cerchi una soluzione politico-diplomatica che per realizzarsi dovrà essere, va da sé, reciprocamente vantaggiosa. Ovvero implicare reciproche ma sopportabili rinunce. Questo sembra pensare il Zelensky in abiti da colomba che abbiamo sentito ieri. Questo probabilmente comincia a pensare lo stesso Putin anche se in pubblico si ostina a fare la faccia truce.

E’ ovviamente difficile rinunciare alla retorica bellicista quando si è in guerra: parole di pace pronunciate da uno qualunque dei contendenti – anche quelli indirettamente coinvolti – potrebbero essere scambiate per un segno di arrendevolezza. Tanto è vero che le uniche che abbiamo sentito in questi giorni – nette, sofferte – sono venute dal Papa, dal mondo intellettuale (anche se molti hanno scelto di indossare l’elmetto, ma è una vecchia storia) o da segmenti della società civile (facendo ovviamente attenzione a non confondere le parole di pace con i proclami pacifistici che spesso ne sono la caricatura strumentale e ideologica). Tocca ora agli Stati (a partire da quelli direttamente coinvolti nel conflitto) e agli altri attori internazionali fare passi seri e concreti in questa direzione. E tra questi ultimi a muoversi con più determinazione dovrebbe essere, a questo punto, l’Unione Europea. Non è vero che la sua scelta belligerante e interventista sarebbe, come qualcuno sostiene, un impedimento a rivestire il ruolo di mediatore. Semmai è vero il contrario. Imponendo le sanzioni, mobilitando i suoi eserciti, inviando armi all’Ucraina, l’Europa, forse per la prima volta nella sua storia, ha mostrato di sapersi comportare, dinnanzi ad una grave crisi internazionale, in modo solidale, unitario, risoluto e tempestivo, senza egoismi nazionali. Tenendo altresì insieme due cose che solitamente vanno ognuna per conto loro: il richiamo ai valori in cui si crede e l’adozione di decisioni concrete e coraggiose per affermarli, l’idealismo delle belle parole e il realismo della forza senza la quale le prime non servono a nulla. 

L’Ucraina è un Paese europeo, esattamente come lo è la Russia (per vocazione se non per geografia). Questa è una crisi tutta interna allo spazio storico-politico-culturale europeo: la propaggine sanguinosa di divisioni sopravvissute alla Guerra fredda e che non si è riusciti a sanare in questi trent’anni. È l’Europa, se questa crisi non si risolverà presto e bene, che rischia di pagarne il prezzo più alto, non solo in termini energetici. Tocca dunque all’Europa – invece che sperare nei buoni uffici della Cina o della Turchia e considerato il fatto che Russia e Stati Uniti sono ormai ai ferri corti diplomatici – prospettare una soluzione politica che sia accettabile e praticabile per i due belligeranti. Si riuscirà a fare questo grande passo prima che sia troppo tardi?

© RIPRODUZIONE RISERVATA