Francesco Grillo
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Sforzo necessario/ Il salto di qualità per la difesa europea

di Francesco Grillo
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Lunedì 7 Marzo 2022, 00:09 - Ultimo aggiornamento: 00:27

Quanto costa all’Europa una politica di sicurezza comune adeguata al ventunesimo secolo? La domanda è diventata all’improvviso la più importante nel dibattito sul “futuro dell’Europa”,mentre la guerra ci sta spingendo con grande velocità verso nuove storiche decisioni. Può essere utile ricordare la risposta che Barack Obama fornì al candidato repubblicano Mitt Romney nel corso dell’ultimo dibattito televisivo prima delle elezioni presidenziali del 2012. L’avversario di Obama decise quella sera di giocarsi l’ultima possibile carta contro il rivale e contestò al presidente che l’esercito degli Stati Uniti avesse nel 2012 meno navi e caccia rispetto alla fine della Seconda guerra mondiale. Il Presidente Obama lo gelò con ironia: «Le do una notizia senatore. Lei ha ragione e aggiungo che abbiamo anche meno cavalli e baionette di quanti ne avessimo durante la guerra di secessione. Nonostante ciò, l’esercito degli Stati Uniti è oggi molto più potente».

La battuta coglie un paradosso che un qualsiasi Paese - e soprattutto oggi l’Unione Europea - deve considerare se vuole costruire una propria capacità di difesa autonoma con risorse pubbliche che stanno per ridiventare scarse. Le tecnologie cambiano il quadro di ciò che serve per dotarsi di una capacità autonoma di difesa. E, come sempre succede quando si prova a considerare come il fattore tecnologico cambi tutte le equazioni che continuiamo a dare per scontate, non è escluso che oggi si possa riuscire nel miracolo di spendere meno e difendersi più efficacemente. In questo senso, la stessa fissazione degli americani di pretendere che gli alleati spendano almeno il 2% del Pil in armamenti può essere fuorviante: del resto la spesa Usa per la difesa è in costante discesa da cinquant’anni e l’esercito ucraino dimostra che non basta spendere per garantirsi vittorie lampo. Difenderà meglio la pace chi ha più capacità di aggregare, processare, trasmettere dati. Vincerà chi sarà capace di trasformare informazioni in conoscenza rilevante a prendere decisioni. Gli eserciti, le navi, gli aerei avranno sempre meno bisogno di esseri umani; da tempo si fanno, del resto, guerre locali per sperimentare carri senza conducenti. Soprattutto, la guerra del futuro assomiglierà tanto a quella che il generale cinese Sun Tzu raccomandava 2500 anni fa nel trattato “L’arte della guerra”, uno dei libri più letti di sempre: conoscere bene il nemico consentirà di vincere le battaglie migliori che sono quelle che non si combattono. La difesa, l’operazione di polizia e “intelligence” nel territorio altrui, ma anche la comunicazione, si stanno fondendo in un’unica strategia che può consentire a un Davide motivato di tenere a bada un Golia arrogante.

L’integrazione delle capacità di difesa dei Paesi europei, passa, dunque, anche attraverso la loro modernizzazione. E comporta tre condizioni. La prima è diventare autonomi dal punto di vista digitale e ciò rimanda alla questione di come l’Europa può dotarsi delle infrastrutture, delle concentrazioni di capitale umano, del controllo di materie prime che le serve per rientrare in una battaglia che al momento sembra riguardare solo Stati Uniti e Cina (persino la Russia ci precede).

Quella che serve è una catena lunga fatta di cavi sottomarini, satelliti, analisti. Di imprese che producono chip e gestiscono piattaforme; altre che progettano e fanno manutenzione di droni; ricercatori che esplorano la frontiera dei sensori che monitorano le condizioni di salute dei militari. Una catena lungo la quale l’Europa presenta dipendenze persino superiori di quelle energetiche che hanno reso, per anni, Putin un alleato scomodo ma inevitabile. In secondo luogo, è importante costruire società molto più resistenti a shock che diventano sempre più intensi e frequenti. Una politica di sicurezza moderna passa non solo attraverso un rafforzamento della capacità di leggere le crisi lontano dai nostri confini, ma anche attraverso l’aggiornamento contino della mappa delle nostre fragilità: città, logistica, comunicazione. Essere resilienti significa peraltro condividere – come dimostra il caso non pianificato dell’Ucraina e quello molto più scientificamente organizzato di Israele – un patrimonio di tecnologie e competenze da utilizzare in emergenza con l’intera cittadinanza. Paradossalmente, la difesa del futuro avrà meno soldati di professione, impiegherà più programmatori e mobiliterà molti più “riservisti”: idealmente un servizio civile obbligatorio potrebbe raggiungere tutti. Infine, però, una politica di sicurezza europea presuppone una premessa politica che non può più essere elusa.

Condividere dispositivi di difesa e, addirittura, patrimoni informativi capillari significa celebrare unioni persino più indissolubili di quelle costruite attorno ad un’unica moneta. È impensabile procedere su una strada così impegnativa con i riti delle unanimità e dei ripensamenti . Significherà avere persino una struttura di comando in grado di prendere decisioni per tutti e ciò significa anche che quel “comandante in capo” abbia un mandato politico che oggi le istituzioni comunitarie non hanno. La politica estera e di sicurezza comune dell’Europa è stata per anni il sogno dei federalisti. Oggi diventa una condizione di sopravvivenza. Essa si realizza, però, non creando un altro esercito simile a quelli che oggi si fronteggiano lungo il fiume che porta da Kiev a Odessa. È, forse, una scelta deliberata quella di fare della battaglia per l’Ucraina una specie di ritorno a tempi che la stessa guerra fredda aveva solo annunciato. Ma il futuro è diverso da quello che narrano i carri armati sotto la neve. Arrivata al bivio decisivo, l’Europa avrà bisogno di fare un salto di qualità immaginando un modo completamente nuovo per difendere la pace.

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