Mario Ajello
Mario Ajello

Orrore infinito/ Cosa dicono le immagini di quei bimbi senza vita

di Mario Ajello
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Giovedì 10 Marzo 2022, 00:07

È stato distrutto un ospedale dove nascono e crescono i bambini e sono stati consegnati i piccoli direttamente alla morte. Si è negata la vita lì dove sorge. Le immagini della strage dei bimbi a Mariupol e altrove - che abbiamo scelto di non pubblicare - così smisuratamente choccanti da far vedere, raccontano di un esserino pietrificato e ingabbiato nella terra come un residuo bellico. Di una femminuccia con le sue trecce e la sua copertina disegnata ad orsi e margherite che sta riversa a pancia in giù, trafitta dai colpi. Di un’altra piccina con il volto insanguinato, il corpo impolverato, le mani giunte e appoggiate sul ventre ricoperto da una maglia colorata e lacera con stampato un gatto e però la soavità di quell’animaletto illustrato e la freschezza di questa personcina innocente sono straziati dalla morte.


Davanti a scene così, girarsi dall’altra parte non si può e non si deve. Perché le immagini tremende del bombardamento dell’ospedale di Mariupol e dello strazio inflitto a chi nella sua giovane esistenza aveva diritto al sorriso e alla speranza, e a guardare il mondo nel suo bello e non nel suo orrore, mandano un messaggio semplice e profondo: fermate questa guerra! Sono le icone della non ulteriore tollerabilità del conflitto in corso le immagini appena descritte. Spiegano come viene sepolto, a due passi da noi, ogni senso di umanità. Uccidere i bambini è uccidere tutto. Chiudere i loro occhi a colpi di missili significa chiuderli a chi ancora deve vedere ogni cosa ed è invece riuscito a vedere soltanto il peggio del peggio.

La strage dei bimbi deve valere come scossa a smetterla di cavillare su chi tra i contendenti abbia ragione e chi torto, su Dombass o No fly zone, su interessi geopolitici della Russia, dell’America, della Nato, della Cina o della Ue, e a pretendere che si arrivi subito, ora, a un compromesso non solo possibile ma obbligato. Zelensky ha detto di poter accettare alcune delle condizioni poste da Mosca e allora perché non ci si siede davvero intorno a un tavolo di trattativa per la pace? Quante altri bambini dovranno morire perché si arrivi a una composizione dei torti e delle ragioni che implichi la fine delle ostilità? Servono altri lutti per smuovere le coscienze dei belligeranti a dire basta agli eccidi e all’eccidio dei piccini? 

Le immagini di Mariupol spezzano il cuore dell’umanità ma dell’umanità fanno parte anche i signori della guerra. A meno che loro non abbiano perso anche la più piccola briciola di coscienza e neppure le vite spezzate dei bimbi possano valere ai loro occhi come un freno, come una vergogna inflitta a se stessi e una pena comminata al prossimo, come una ammonimento a ritrovare il senso perduto della civiltà.

Dopo le sequenze choc di queste ore, davanti all’escalation dei neonati e degli adolescenti come bersagli, non si può più essere spettatori della guerra o pacifisti perché evviva la pace. Occorre diventare attori attivi della difesa del principio di umanità che ha nel rispetto dell’infanzia, nell’amore per le vite nuove, nella gioia di vedere crescere il futuro sulle gambe e negli sguardi dei nostri figli e nipoti, la sua quintessenza. Il bambino è l’avvenire e invece lo si seppellisce sotto le bombe della violenza primitiva. Ogni conflitto deve avere un limite, ogni furia deve contenere un freno, ogni mano che lancia un missile deve appartenere a qualcuno che sappia che il bambino che si va ad abbattere potrebbe essere il proprio bambino. Quando l’occhio per occhio e dente per dente rende il mondo cieco, anche davanti alle esistenze più fragili e indifese, si scende sotto il grado zero, ci si inabissa nel nulla, si sprofonda in un vuoto incommensurabile e brutale in cui non ci sono ragioni geopolitiche che tengano o interessi nazionali e internazionali che possono esistere e di cui vale la pena parlare. 

Già l’altro giorno è risultata choccante la foto del piccolo Kirill, 18 mesi, morto nell’ospedale senza corrente sempre a Mariupol, e la vana corsa disperata dei genitori per salvarlo. Ora c’è la moltiplicazione di queste scene. E siamo nelle serie che ebbe nella foto di Aylan - tre anni, riverso sulla spiaggia, in fuga con i genitori profughi dalla Siria - una delle rappresentazioni più angoscianti e più ammonitrici per l’opinione pubblica europea perché è in Europa che il piccolo voleva arrivare. O in quella dei bimbi bersagliati dalle granate dei russi nella scuola di Beslan, dove morirono quasi 300 ragazzini ceceni. Ora i piccoli grandi martiri di Mariupol appartengono in pieno, per un fatto geografico e culturale, all’album di famiglia europeo. Sono vestiti come i nostri bambini, hanno gli stessi animaletti sulle t-shirt, gli stessi ninnoli e gli stessi giochi. Sono proprio i nostri figli e i nostri nipoti. E davanti a piccoli pezzi di noi di cui si fa strage, ancora ci attardiamo a non pretendere - non retoricamente ma praticamente: parlatevi e chiudiamo l’orrore - che venga subito conclusa questa guerra?
Finché esistono le macerie sotto cui piangono e muoiono i bambini ucraini, quelle macerie siamo noi

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