Alessandro Campi
Alessandro Campi

Successi e flop/ Il volto nuovo dei partiti disegnato dagli elettori

di Alessandro Campi
6 Minuti di Lettura
Mercoledì 28 Settembre 2022, 00:33

Entrati nelle urne per sottoporsi al giudizio degli italiani, i partiti ne sono usciti profondamente cambiati. Sul piano dei numeri e dei rapporti di forza, certo. Ma soprattutto sul piano qualitativo, dell’immagine e della progettualità. Il voto li ha quasi tutti trasfigurati, ridefiniti, rimodellati. Così come ha modificato il profilo politico dei rispettivi leader per il futuro. Vediamo come, oltre le cifre, le percentuali e i grafici.
Partiamo dalla Lega. Ha subìto un calo nei consensi assai drastico, causato secondo Salvini dall’appoggio responsabilmente dato al governo di unità nazionale guidato da Draghi.

Ma è una spiegazione parziale e consolatoria. Quello che non ha funzionato in questi anni è stato altro. Ad esempio, la personalizzazione troppo spinta di quello che era un partito-comunità. La virtualizzazione e la dissoluzione nell’universo della comunicazione digitale di quello che era un partito popolare e ruspante, basato sul porta a porta militante. La nazionalizzazione di quello che era, per definizione, il partito del Nord. La clericalizzazione strumentale di un partito nato al tempo stesso padano e pagano.
Insomma, con Salvini, uomo-immagine più che capopopolo carismatico alla Bossi, è sparito il riferimento alla Padania, TikTok s’è mangiato le ritualità strapaesane di Pontida, l’uso ideologico dell’immigrazione ha sostituito il sindacalismo territoriale a beneficio di imprese e lavoratori. Tutte cose che hanno prodotto una crescente insoddisfazione. 

Il voto ci ha restituito una Lega che sembra tornare forzatamente alle origini: il partito dell’orgoglio nordista, dell’autonomismo sempre sul punto di trasformarsi in secessionismo anti-nazionale, del fare-lavorare-produrre padano. Con la differenza che ora c’è la crisi – profonda, strutturale – e a Roma e Bruxelles, un tempo facili bersagli polemici, gli imprenditori del Nord hanno adesso bisogno di interlocutori che li aiutino a evitare la catastrofe economica. 

Salvini forse sopravviverà alla guida della Lega, anche per mancanza di una seria alternativa al suo nome: ma sarà d’ora in avanti, questa l’impressione, un capo sotto tutela, controllato a vista da suoi governatori e amministratori.

Ma quanto è cambiato, con questo voto, anche il M5S. Era un partito diviso e a rischio implosione, sovrastato dall’ombra del guru-fondatore-censore-garante, senza dunque una guida politica interna legittimata e autonoma. E’ diventato, con buona pace di Grillo, il partito di Conte, artefice di un’abile campagna elettorale. Finita la stagione della piattaforma Rousseau a pagamento, del non-statuto, dello spontaneismo dal basso e dei finti plebisciti in Rete, d’ora in avanti comanderanno Conte e gli uomini e donne che ha scelto personalmente. Il movimento eterodiretto è finito, è nato un partito con un capo politico vero. 
Negli anni i grillini si erano gonfiati raccogliendo un voto di protesta lasco e cangiante per definizione, ideologicamente trasversale. Ora è il partito del Sud. Per voti e radicamento, ma anche per visione della politica: essenzialmente statalista e assistenzialista. Non più dunque il collettore del risentimento sociale e della protesta anti-sistema fine a se stessa, ma un soggetto politico nuovo: un partito concorrenziale a sinistra col Pd, avendo fatta sua la bandiera della lotta alle ineguaglianze e povertà, dell’ecologismo radicale, del pacifismo ideologico, del tutto a tutti a spese dell’erario. 

Quanto al Pd questo voto ne ha fatto esplodere tutte le storiche contraddizioni e debolezze. La sua trasfigurazione più grande consiste, detto con ironia, nell’essere diventato un partito di opposizione essendo stato per troppo tempo un partito di governo a prescindere. Non sarà facile stare fuori dalla stanza dei bottoni, abituati come si era a spingerli sempre, ma potrebbe essere salutare.
Il Pd era un partito che a dispetto di ogni crisi o flessione poteva sempre vantare l’esistenza di forti presidi territoriali nell’Italia di Mezzo.

Un’egemonia che con questo voto è definitivamente svanita, insieme alla subcultura di storica matrice comunista che ancora la sosteneva. La post-modernità liquida che il Pd ha scelto di cavalcare, culturalmente prima che politicamente, ha finito per sganciarlo dalla realtà dei processi sociali che la sinistra un tempo era in grado di comprendere e governare. 

Quanto a Letta, beh, si è educatamente dimesso lanciando, forse senza nemmeno rendersene conto, lo stesso messaggio che fu del Renzi rottamatore: largo ai giovani, sperando che la corsa per il nuovo segretario del Pd non venga gestita nello stile di X-Factor.

Il Terzo Polo voleva fare la terza forza. È la quarta: un dato politico prima che numerico, che riduce molto l’ambizione del nuovo partito a porsi come ago della bilancia di un sistema bipolare che non esiste. 
Durante la campagna elettorale il frontman è stato Calenda. Ora comincia la fase, complicata per definizione, della diarchia di quest’ultimo con Renzi. In politica comanda sempre uno: quale dei due? Ma il dato interessante uscito dalle urne è un altro. Nelle intenzioni il Terzo Polo doveva raccogliere consensi trasversali di fonte moderata e riformista. Gli elettori di centrodestra hanno snobbato la sua proposta. Ci si è così limitati a drenare voti decisivi a Pd nei centri urbani che erano un tempo terreno elettorale privilegiato di quest’ultimo. Terzo Polo, dunque, ma di sinistra. 

E veniamo ai vincenti: i Fratelli d’Italia. Questo partito era considerato fino all’altro ieri romanocentrico e d’impronta statalista, visto per questo col fumo negli occhi dai ceti produttivi del Nord. Lo hanno votato in massa proprio questi ultimi, determinando lo storico capovolgimento nei rapporti con la Lega. Si tratta di una piccola rivoluzione sociale e culturale. Giorgia Meloni ha evidentemente agito da aggregatore di tutte le categorie e corporazioni economiche, a partire da quelle minori spesso politicamente sottorappresentate, colpite dalla crisi e in cerca di protezione e risposte.

Accusata di essere sin troppo barricadiera, chiuse le urne la leader di FdI ha scelto la strada della massima sobrietà: niente festeggiamenti per strada, nessun trionfalismo, apparizioni pubbliche ridotte al minimo. Ha subito vestito abiti istituzionali, come si addice al ruolo politico che l’aspetta e alla difficile congiuntura che il nuovo governo dovrà gestire. Dal populismo al pragmatismo: s’annuncia un cambiamento interessante.
Quanto alla variabile ideologica su cui molto si è polemizzato prima del voto – l’eredità ideologica del Ventennio, la collocazione forzata nell’estrema destra, le amicizie pericolose in Europa con potenziali autocrati – i primi a disinteressarsene sono stati gli elettori. Chiuse le urne, l’allarme fascismo sembra già rientrato, a conferma che era un argomento pretestuoso. D’altro canto, se della svolta a destra del nuovo Parlamento non si preoccupa l’Amministrazione americana, se non altro per realismo nei rapporti tra Stati, perché prendere sul serio gli allarmi per la sorte della democrazia italiana affidati ai social da cantanti, attori e influencer? 
Resta da dire di Forza Italia. L’unico caso in realtà di partito rimasto uguale a sé stesso prima e dopo il voto. Nel senso che era, resta e sempre sarà il partito di Silvio Berlusconi, con quest’ultimo a sua volta immobile, non cangiante, eternamente eguale a se stesso. Una certezza apprezzata dall’8 per cento dei votanti. Pochi, ma decisivi, come il Cavaliere ricorda sornione in queste ore.

© RIPRODUZIONE RISERVATA