Nonostante la “cucina” giapponese sia relativamente semplice e sana, il tempo (e lo spazio...) da dedicare ai fornelli, soprattutto nelle grandi città, è sempre di meno. Nella maggior parte delle famiglie oramai si “cucina” solo una volta al giorno, la mattina presto, quando le mamme (anche i papà a volte, ma sono decisamente pochini ancora) assieme alla colazione, preparano il tradizionale “bentou”, la “scatoletta” per il pranzo a scuola dei bambini e, ma anche questa è una tradizione che sta scomparendo, dei mariti che vanno in ufficio. Il pranzo si consuma quasi sempre fuori casa e la cena, alla quale il marito in genere non partecipa, essendo più o meno “costretto” a consumarla con i colleghi dell’ufficio, si mette insieme con gli “avanzi” della colazione. L’importante è che ci sia sempre un po’ di “gohan” a disposizione, il tradizionale riso a vapore che si prepara con delle speciali pentole elettriche, le cosiddette “suihanki” che oltre a cucinare il riso lo tengono in caldo per tutta la giornata (e anche più, usanza considerata un tempo inaccettabile, come da noi la pasta riscaldata, ma che ultimamente è sempre più diffusa).
La situazione tuttavia, in tempi di pandemia e di sia pur “soffice” lockdown – il Giappone non ha mai “chiuso” come abbiamo fatto noi in Italia e in Europa, limitandosi a “suggerire” tutta una serie di regole e limitazioni agli esercizi pubblici, ristoranti compresi – è profondamente cambiata. Milioni di famiglie si sono ritrovate “chiuse” in casa, in spazi ridotti e con l’esigenza di consumare tutti i pasti insieme. Una situazione completamente nuova che ha provocato non solo profondi disagi sociali (litigi, violenze domestiche, aumento di separazioni, divorzi e financo suicidi) ma anche semplicemente “logistici”. Anche volendo vivere la nuova situazione in maniera positiva, approfittandone per rafforzare i legami familiari, le abitazioni giapponesi, che spesso prevedono spazi minuscoli per la cucina, quasi sempre situata nel cosiddetto soggiorno e normalmente dotata di appena 2 fornelli senza forno, non sono l’ideale per preparare pranzi e cene per molte persone. Grazie al cielo c’è il variopinto, onnipresente ed efficacissimo mondo del “demae”: il servizio a domicilio. Settore già presente prima delle attuali emergenze, ma che oggi è cresciuto in modo smisurato, uno dei pochi ad avere non solo aumentato il fatturato dei singoli esercenti, mantenendoli “in vita”, ma anche creando migliaia di posti di lavoro per l’indotto, in particolare per i “riders”, categoria divenuta anche qui socialmente indispensabile, veri e propri “eroi”, al pari di medici e infermieri, con i quali condividono rischi e turni di lavoro inauditi (ma non gli stipendi e garanzie contrattuali).
Ed è proprio ai “riders” che dobbiamo una recente scoperta.
Funziona così: molti locali più o meno famosi, noti per un particolare tipo di cibo (tempura, sushi, tonkatsu, teppanyaki: i ristoranti in Giappone sono quasi sempre specializzati, a meno che non si tratti delle “izakaya”, le nostre osterie, o dei “family restaurant”, che offrono un po’ di tutto, a prezzi – ma anche qualità – stracciate) di questi tempi preferiscono chiudere al pubblico e incassare i generosi rimborsi piuttosto che sottostare alle varie limitazioni imposte dallo stato di emergenza. Ma questo non impedisce loro di accettare ordinazioni per la consegna a domicilio. E fin qui, nulla di male. «Il problema, non certo per noi, visto che aumenta il lavoro – spiega Hanif – è che questi ristoranti hanno deciso di diversificare il business, sfruttando gli spazi delle loro cucine per produrre piatti fuori dal loro tradizionale menù: ovviamente usano nomi diversi, quando si pubblicizzano su internet, ma l’indirizzo è lo stesso». Ed ecco che presso una delle cucine “centralizzate” di una famosa catena di tempura improvvisamente i riders si ritrovano a caricare ogni sorta di cibo. Anche “etnico”, cui i giapponesi, vista la qualità e la convenienza, vanno sempre più ghiotti. Spesso, gli indirizzi forniti in rete sono solo centri di raccolta e smistamento. Il cibo infatti viene spesso prodotto altrove. Anche a casa di privati. Abbiamo verificato di persona: e abbiamo scoperto, grazie ad un rider e ad una conoscenza personale, che una serie di prelibatezze italiane, tipo lasagne, melanzane alla parmigiana, gnocchi etc etc, vendute attraverso una catena di “izakaya” in realtà vengono prodotte a casa di una signora italiana. Nulla da dire su prezzo e qualità: le lasagne le abbiamo assaggiate e sono fantastiche. Qualche dubbio sull’efficacia dei sistemi di controllo, sanitari e fiscali rimane, certo. Ma si sa, in tempi di pandemia vale tutto, anche in Giappone, dove peraltro qualità e senso di responsabilità civile sono garantiti anche nel mercato che un tempo si chiamava “nero” e oggi, anche da queste parti, “parallelo” o “alternativo”.