Pio D'Emilia
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Sakae Menda, il Giappone, l’anima e il braccio della morte

Sakae Menda, il Giappone, l’anima e il braccio della morte
di Pio D'Emilia
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Domenica 6 Dicembre 2020, 23:45 - Ultimo aggiornamento: 7 Dicembre, 19:43

Pochi giorni fa si è spento a Fukuoka, nel sud del Giappone, Sakae Menda. Aveva 95 anni, 34 dei quali passati in carcere. Per l’esattezza, nel braccio della morte. Una cella di 5 mq, senza riscaldamento d’inverno o aria condizionata d’estate, con la luce sempre accesa e dove la minima violazione delle crudeli regole imposte (tipo il divieto di dormire a pancia sotto o sul fianco opposto alla porta, impedendo così alle guardie di controllare se il detenuto respira) comporta il chobatsu, l’ammanettamento per almeno 48 ore che costringe i detenuti a trattenere i bisogni fisici e a mangiare in ginocchio, direttamente da una ciotola sistemata per terra, come i cani.
Condannato nel 1948, all’età di 22 anni, per un omicidio che non aveva commesso – ma che aveva “confessato” dopo due mesi di carcerazione preventiva, incessanti interrogatori senza la presenza di avvocati e vere e proprie torture (venne appeso al soffitto varie volte, per ore, a testa in giù) – Menda era stato finalmente liberato nel 1983, dopo ben 7 appelli per la revisione del processo, tutti respinti.

Dal quel momento, Menda era diventato un po’ il simbolo della lotta contro la pena di morte, e più in generale degli errori giudiziari (dopo di lui ci sono stati altri 4 condannati a morte liberati) partecipando a numerosi eventi sia in patria che all’estero (è andato anche a Roma, ospite della Comunità di Sant’Egidio) e devolvendo un terzo del risarcimento ottenuto dallo Stato – circa un milione di euro, dopo un lunga battaglia giudiziaria – ad alcuni movimenti ed associazioni impegnate nella battaglia per l’abolizione – o quanto meno la moratoria – della pena di morte.


Quando si pensa ai Paesi “civili” che ancora prevedono nel loro ordinamento giuridico – e di fatto applicano – la pena di morte, in genere si pensa agli Stati Uniti, dove peraltro la situazione negli ultimi anni è in costante evoluzione, con sempre più stati che l’hanno abolita o sospesa e Biden che in controtendenza con la posizione di Trump, ha appena annunciato l’intenzione di sospendere le esecuzioni federali.


Purtroppo in questa lista nera, anzi nerissima, c’è anche il Giappone.

Assieme agli Stati Uniti, è l’unico Paese del G7 a prevedere e applicare – senza alcun segnale di ravvedimento – la pena di morte, che avviene per impiccagione in assoluta segretezza e secondo un rituale tanto bizzarro quanto crudele (per chi volesse approfondire l’argomento, consiglio la visione del bellissimo quanto pressoché sconosciuto film di Nagisa Oshima, “Koshikei”, l’Impiccagione, disponibile con sottotitoli in inglese, portoghese e francese su You Tube. 

Il numero delle esecuzioni, che avvengono all’improvviso, avvertendo i condannati pochi minuti prima e parenti e legali addirittura dopo, è limitato: quest’anno “appena” 3, l’anno scorso, ma è stata un’eccezione, 15. In genere sono meno di una decina l’anno, e vengono stabilite senza alcun ordine logico, a discrezione assoluta del ministro della giustizia in carica, che deve firmare personalmente l’ordine di esecuzione. La legge stabilisce tuttavia che l’esecuzione non può avvenire in costanza di appelli o ricorsi, ed è per questo che spesso i condannati passano molti anni nel braccio della morte, nelle condizioni disumane che abbiamo descritto sopra.


Tra tutti, va ricordato il caso di Iwao Hakamada, un ex pugile che ha passato ben 46 anni nel braccio della morte – record assoluto, certificato dal Guiness dei primati – prima di essere finalmente liberato nel 2014, dopo che il tribunale di Shizuoka aveva finalmente disposto la revisione del processo. Nel frattempo, Hakamada ha riportato gravi danni alla sua salute mentale. La cosa più terribile, che Menda definiva una vera e propria tortura, era il fatto che le esecuzioni venivano annunciate solo pochi minuti prima: «A noi dicevano che era per evitarci lo stress dell’attesa, di fatto nel mio caso lo stress è durato 34 anni. Ogni mattina, quando passava la ronda, vivevo nel terrore che si fermassero di fronte alla mia cella. In Giappone, prima del corpo, le autorità cercano di uccidere l’anima. Ma con me non ci sono riusciti. Sono entrambi sopravvissuti».


Chissà se almeno in occasione delle Olimpiadi – sempre che si facciano – il governo giapponese non decida finalmente di ascoltare i numerosi, ricorrenti appelli che vengono dall’Europa e da vari movimenti ed associazioni, tra le quali spicca la Comunità di Sant’Egidio (qui l’ultimo appello) per, quanto meno, una moratoria “olimpica” delle esecuzioni. 

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