Pio d'Emilia
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Riforma digitale, i ritardi di Tokyo

Riforma digitale, i ritardi di Tokyo
di Pio d'Emilia
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Lunedì 17 Maggio 2021, 00:36

All’inizio si è pensato ad un errore di “comunicazione”. Scuole “chiuse” durante le lezioni, con rinnovo della cosiddetta Dad (didattica a distanza), ma obbligo per gli alunni di andare a mensa per il pranzo. Un’assurdità, hanno subito pensato un po’ tutti: che senso ha tenere i bambini a casa – tra mille difficoltà tecniche e logistiche – per poi obbligarli a frequentare le mense, notoriamente il momento più “pericoloso” per un eventuale contagio? 
Non era un errore. Il comune di Osaka – assieme a Tokyo una delle città più colpite dalla cosiddetta “quarta ondata” che ha colpito il Giappone e che a poche settimane dalle Olimpiadi ha costretto il governo ad estendere di nuovo lo stato di emergenza, per ora, fino alla fine di maggio – aveva davvero deciso di creare questo pericoloso precedente, giustificandolo con il fatto che garantire un pasto gratuito e uguale per tutti, per la scuola dell’obbligo, è un obbligo costituzionale. 


Giusta preoccupazione, hanno notato i media nazionali, ma di fronte ad un’emergenza come quella attualmente in corso bisogna dare priorità alla sicurezza e alla tutela della salute pubblica. Un ostacolo – quello di una costituzione che vieta espressamente qualsiasi possibilità di restringere a livello nazionale alcune libertà fondamentali, compresa quella di movimento – che ha impedito al governo centrale di imporre per legge o decreto chiusure forzate e coprifuoco, delegando alle autorità locali il compito di valutare eventuale misure restrittive/coercitive “ad hoc”. Ed è quello che, grazie al senso di disciplina, e al diffuso rispetto per le “raccomandazioni” delle autorità ha aiutato sin qui il Giappone a gestire al meglio la pandemia.


Dopo una serie di riunioni tra associazioni dei genitori, rappresentanti dei docenti e autorità locali il problema delle mense aperte è rientrato, e Osaka si conferma una tra le poche città del Giappone (Tokyo è decisamente indietro) ad aver approfittato dell’emergenza Covid per imboccare con determinazione la via della cosiddetta “transizione digitale”. Una via tutt’ora lastricata di molti, per ora insormontabili ostacoli, e che non riguardano solo il settore della scuola, ma l’intera società giapponese, che è molto meno “digitalizzata” di quanto si possa immaginare. Destò scalpore, agli inizi della pandemia, scoprire che i “numeri” dei contagi, nonostante il basso numero di tamponi, venivano trascritti a mano e inviati via fax (strumento caduto oramai in disuso in gran parte del mondo industrializzato ma ancora diffusissimo in Giappone) alle autorità centrali.

Ma se la scarsa diffusione della banda larga e delle tecnologie per il collegamento a distanza (poche aziende giapponesi sono accessibili da remoto con il Vpn), oltre alle difficoltà “logistiche” dovute alle dimensioni delle abitazioni, hanno reso complicato e poco diffuso lo smart working, nel settore della scuola l’emergenza Covid ha provocato – così come in Italia - l’improvvisa accelerazione di un rinnovamento che il governo aveva da tempo individuato come necessario ma che languiva, come tanti altri, nei meandri di una pubblica amministrazione non sempre pronta a recepire le indicazioni della politica.

 
Parliamo del cosiddetto Giga (Global and Innovation Gateway for All), un programma che il governo aveva lanciato già dal 2018, e che stanziava all’epoca, ma i fondi sono stati appena raddoppiati, circa 5 miliardi di dollari per aggiornare – e collegare in rete – la dotazione informatica delle scuole dell’obbligo (elementari e medie) e soprattutto istruire docenti e alunni (più i primi che i secondi, che come in tutto il resto del mondo sono decisamente più a loro agio nel maneggiare computer, tablet e smartphone).

Ma sia governo che autorità locali si sono trovati davanti ad un enorme ostacolo: quello della scarsa diffusione, sia tra gli adulti che soprattutto dei giovani studenti, di computer e tablet.

La maggior parte dei giapponesi, bambini compresi, dispone e “smanetta” regolarmente con i telefonini, ma pochi, in paragone ad esempio ai loro vicini coreani e financo cinesi, possiedono dispositivi più sofisticati, ma indispensabili per la Dad. Solo uno studente su 5, dicono le statistiche “possiede” un tablet o un computer ma si tratta di un possesso spesso condiviso con altri membri della famiglia. L’uso esclusivo è appannaggio di appena uno su dieci. Per questo tra gli impegni assunti dal governo c’è anche quello di aumentare le dotazioni delle scuole, in modo che i nuovi, aggiornati dispositivi possano essere almeno prestati agli alunni. Ma questo vale solo per la scuola dell’obbligo: gli studenti delle superiori – livello al quale accedono oltre il 90% dei giovani – dovranno arrangiarsi ed acquistarne uno a loro spese. Dall’anno prossimo saranno infatti obbligatori e il loro acquisto peserà sui già difficili bilanci delle famiglie. 

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