Mario Ajello
Mario Ajello

Politica miope/ Il Recovery e i reali interessi degli italiani

di Mario Ajello
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Mercoledì 13 Gennaio 2021, 00:23

La crisi finirà come finirà. Ma al di là degli schemi di Palazzo, dei nuovi equilibri o delle altre convulsioni che risultassero da questo passaggio importantissimo, agli occhi degli italiani, bisognosi di chiare indicazioni sul futuro, è sul Recovery Fund che si gioca il destino del nostro Paese. Come il presidente Mattarella, il più sensibile interprete della coscienza nazionale, ha colto con più nitidezza di ogni altro e infatti ha voluto mettere il piano di ricostruzione al centro e al riparo del confronto-scontro in atto.

La ripartenza italiana è il nocciolo della questione che finora è stato maneggiato male e che richiede da chiunque governerà negli anni o nei mesi a venire l’attenzione primaria, insieme alla lotta per uscire dalla pandemia. Conte ha gestito questa partita in maniera confusa e rococò, tra incomprensibili task force annunciate e rimangiate, strappi nei confronti dei partiti come se fossero enti inutili, eventuali cabine di regia al servizio di un solipsismo che ha scontentato tutti da subito. 

E tra questi non solo Renzi ma anche il Pd e i 5Stelle, per non dire dell’alta burocrazia ministeriale e istituzionale non meritevole sempre e comunque di essere considerata alla stregua di un peso dannoso, visto che ancora questo Paese può vantare eccellenze tra i grand commis, anche se non più al livello di quelle esistenti al tempo della ricostruzione post-bellica, in parte ereditate dal ventennio fascista, e prima ancora dall’Italia liberale. 
Ecco, Conte ha gestito il cuore di quella che dovrebbe essere la politica, ossia visione, capacità di decisione e realizzazione delle cose nell’interesse nazionale e non personale o partitico, un po’ alla stessa maniera con cui ha inscenato i Consigli dei ministri: nell’oscurità della notte, prendendo gli altri per stanchezza, accentrando e insieme divagando, praticando il motto che gli è connaturato: loquor ergo sum, ovvero parlo e parlo. C’è chi si è accorto subito di questa strategia definibile “bonapartismo senza fatti”. 

Ora basterebbe che lui, o chi per lui, adottasse - senza voler sperare in equiparazioni di tipo personale che risultano incongrue - l’approccio ideale e insieme pragmatico visto nei grandi piani di ricostruzione del passato, dal New Deal americano con Roosevelt al mastodontico investimento di De Gasperi e della classe dirigente di allora sulla rinascita italiana dopo la seconda guerra mondiale. Che può non essere un esempio irripetibile, perché le difficoltà di quei tempi nei rapporti politici - si pensi alla guerra ideologica con il Pci - non erano minori, tutt’altro, rispetto a quelle di oggi. 

Finora non c’è stata neppure l’ombra, nel Recovery alla Conte ultimamente rivisto e corretto e speriamo bene, della consapevolezza che ai cittadini altro non interessa - e tanto meno a chi va quella o quell’altra poltrona ministeriale o chi vince e chi perde nel match in corso tra i leader - se non dove verranno destinati i 222 miliardi di euro a disposizione e soprattutto come verranno messi sul terreno e fatti materialmente fruttare al servizio del miglioramento delle nostre condizioni di vita.

In che modo, in quale misura, a partire da quando e in quanto tempo e attraverso quali mani e quali chiare e visibili responsabilità i sostegni Ue finiranno per incidere sui vari bisogni? Il nuovo corso dell’Italia da Conte bis bis, o Conte ter, o da governo allargato giallo-rosso-azzurro o da esecutivo tecnico o via dicendo, ha il dovere di dare risposte urgenti a domande impellenti di pubblico interesse: la digitalizzazione, il rilancio delle infrastrutture a dispetto della lentocrazia, la velocizzazione della giustizia civile, il rifacimento della scuola e degli edifici scolastici, la rimessa in moto dei piani edilizi. 

Per non dire di quella che deve diventare l’ossessione della nuova fase: far rientrare il Sud, dimenticato e vilipeso dalle politiche di questi anni, quale parte attiva nella rinascita del nazionale.

Perché è la rassegnazione a vivere in un Paese dualistico, squilibrato a favore del Nord che succhia energie e potenzialità al Mezzogiorno senza restituire il dovuto, il dramma della nostra economia e l’handicap che ci indebolisce rispetto alla concorrenza internazionale. Del resto l’Italia post-bellica poté realizzare il suo boom proprio perché si fece diventare il Sud co-protagonista di una storia che poi però, con il passare dei decenni e con l’avvento dello sguardo breve, è diventata miope e monca a causa di nordismi insensati e di colpevole indifferenza politica generalizzata. 

Dunque ci sarà un rimpastone o qualcosa di più o di meno o di peggio nelle prossime ore, ma se non verrà finalmente stabilito e sostanziato che dallo stallo si passa finalmente a una modernizzazione vigorosa, si innescherà la spirale più temibile. Quella della sfiducia nelle istituzioni e del tracollo definitivo di una classe dirigente a cui viene richiesta una maggiore affidabilità da parte di una popolazione che, al di là dei diversi colori politici, ha il tratto comune di essere sfiancata dalla pandemia e di non poter più sopportare riti e modi di certa politica inconcludente.
 

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