Alessandro Campi
Alessandro Campi

Questione morale/ La lezione per l'Europa che arriva dal Qatargate

di Alessandro Campi
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Venerdì 23 Dicembre 2022, 00:25

Lo scandalo che ha investito l’Unione Europea (a partire dai suoi vertici politici) è probabilmente solo agli inizi. Le indiscrezioni che filtrano attraverso i diversi canali d’informazione lasciano immaginare uno scenario corruttivo più vasto, che dai parlamentari potrebbe persino estendersi a membri della Commissione, oltre che a consulenti, consiglieri, funzionari e dirigenti di importanti uffici. Noi italiani sappiamo come possono andare simili vicende: Mani Pulite partì con l’arresto d’un manigoldo e finì col crollo d’un intero sistema politico.
Sinora le personalità coinvolte o sospettate d’aver incassato o smistato il denaro proveniente, secondo le accuse, da Qatar e Marocco sono state soprattutto italiane e greche, quasi a confermare gli stereotipi del nord Europa protestante verso il levantinismo mediterraneo. Ma anche su questo versante converrebbe prudenza, visto che il rigorismo morale spesso è solo il velo intriso di ipocrisia dietro il quale si nasconde l’affarismo privo di scrupoli. L’esperienza ci dice che l’arricchimento illecito attraverso la politica e i suoi meandri non conosce confini o appartenenze nazionali.

Ma ammettiamo che lo scandalo non vada oltre quel che per ora sappiamo: alcune valigie stracolme di banconote nella disponibilità di una ristretta cricca al servizio di Stati autocratici e potenze extra-europee. Tanto già basta in realtà per guardare alla macchina politico-burocratica continentale con occhi profondamente diversi rispetto al passato. E per farsi venire dubbi e perplessità, paure e preoccupazioni, tanto fondate quanto legittime.

Le stesse che hanno spinto le grandi famiglie politiche presenti nel Parlamento europeo (socialisti, popolari, liberali, conservatori, verdi, persino molti populisti) a tenere un atteggiamento stranamente prudente sulla vicenda. Prima di speculare contro gli avversari politici, meglio accertarsi che anche i propri uomini e donne abbiano tenuto comportamenti adamantini. Quasi che il peggio, per tutti, debba ancora venire. Da un lato evidentemente si teme di vedere coinvolti propri esponenti in quello che alcuni osservatori considerano non un episodio grave ma circoscritto, bensì un sistema corruttivo articolato e radicato secondo prassi e metodi che in realtà erano ben conosciuti (diciamo, sospettati) da molti addetti ai lavori.

Mancavano le prove e le evidenze materiali, arrivate non grazie a verifiche e denunce interne o a un coraggioso giornalismo d’inchiesta (qualcuno ha citato a sproposito il “caso Spotlight”, quello che portò il “Boston Globe” a denunciare gli abusi sessuali coperti dal Vaticano), ma alle lotte sorde tra i servizi d’intelligence di alcuni Paesi arabi. Un sistema reso possibile dal modo di funzionare stesso dell’Ue (il malcostume alligna laddove dominano la farraginosità burocratica e l’ipertrofia normativa) e dalla quantità abnorme di interessi e poteri, dunque di appetiti e denaro, che si sono concentrati sempre più dalle parti di Bruxelles.

Dall’altro si ha la consapevolezza che il danno politico e d’immagine creato alla credibilità dell’Europa è già talmente grande da poter diventare catastroficamente irreversibile. La sinistra dei grandi ideali e delle belle parole ne uscirà certamente danneggiata sul piano elettorale, ma le macerie alla fine potrebbero travolgere tutti. Rischia infatti di venire meno la fiducia collettiva nel progetto d’integrazione europea in quanto tale, con quel che ne conseguirebbe in termini di partecipazione popolare al voto, di legittimazione politica e dunque di buon funzionamento delle istituzioni. A cantare vittoria, in quest’ultimo caso, non sarebbero tanto Orbàn e gli altri soci del club populista, quanto i veri nemici o competitori dell’Europa, quelli che si trovano fuori dai suoi confini e che forse non aspettavamo altro.

L’unica consolazione in questa vicenda è che dagli errori che si commettono, come vuole un’antica saggezza, si può anche imparare sino a diventare persino migliori. Basta avere la forza di ammetterli e di correggere tempestivamente i propri comportamenti. Il che però non significa, come qualcuno sta proponendo, varare nuove norme o regolamenti, stilare decaloghi o codici di condotta, creare nuove incompatibilità formali, insomma aggiungere leggi a leggi.

Nella sfera politica, l’irreprensibilità dei comportamenti individuali dipende infatti solo in parte dall’esistenza di interdetti legali e di un sistema sanzionatorio anche il più rigoroso. Molto contano il senso morale nonché lo spirito di dedizione e servizio che dovrebbero sempre sostenere la causa generale – un’ideologia, una visione della società, un sistema di valori – per cui ci si batte allorché si sceglie di militare in un partito. Ma il problema è appunto questo: per cosa si battono oggi (e in cosa credono) i rappresentanti eletti dai cittadini europei? Tracollate o divenute un paramento formale le culture politiche tradizionali, subordinate le scelte vincolanti per la collettività al mero proceduralismo tecnico, piegata la stessa politica ad una logica essenzialmente economicistica, cosa resta se non l’affarismo magari travestito da impegno umanitario o da battaglia per la salvezza del mondo?

Ma in questa vicenda colpisce anche altro. Ad esempio l’insostenibile asimmetria tra i fini dichiarati e i comportamenti effettivamente tenuti, talmente grande da essere alla fine divenuta esplosiva. Da un lato l’Europa dei valori non negoziabili e faro di civiltà nel mondo, dall’altro i suoi rappresentanti istituzionali che si lasciano acquistare sul mercato dei disvalori dal miglior offerente straniero. Da un lato l’Europa che sempre più regola nel dettaglio la vita di tutti noi, dall’altro i suoi esponenti che vivono un’esistenza parallela fuori da ogni regola o convenzione.

Come uscirne prima che tutto vada in malora? Non certo denunciando un attacco deliberato all’Europa che in realtà si è messa al tappeto da sola. La strada scelta sinora dell’autodifesa d’ufficio e della denuncia di complotti immaginari – ad esempio dalla presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola – rischia di non portare da nessuna pare, semmai di acuire lo scetticismo intriso di cinismo di un’opinione pubblica europea che – tra guerra, crisi energetica e inflazione – già vedeva nero per il proprio futuro. Servirebbe semmai un deciso cambio di prospettiva e visione. Col passaggio, ad esempio, dall’europeismo come religione civile, quale esso è diventato strada facendo, all’europeismo come progetto politico da realizzare su basi pragmatiche e realistiche, com’era in passato. La verità è che l’Ue, a furia di accentrare competenze, poteri e funzioni s’è per davvero trasformata in un gigante burocratico privo però di una guida politica unitaria. Al tempo stesso l’europeismo si è trasformato da ideale politico finalizzato a due grandiosi obiettivi storici – pace e cooperazione tra gli Stati dell’Unione, benessere diffuso e rispetto dei diritti per i loro cittadini – in una specie di dogma o credo declinato in una chiave sempre più retorica, enfatica, celebrativa e dogmatica.
Aggiungiamoci infine il radicarsi nei circoli politico-burocratici europei – a misura che sono cresciute le competenze e le materie sottratte alla tradizionale sovranità degli Stati – di un senso di smisuratezza e onnipotenza che ha prodotto, tra le altre conseguenze, anche una sorta di sentimento di impunità. Tutto ormai si fa e si decide in Europa. Dunque, in Europa tutto si può fare e decidere. Senza controlli o ingerenze, senza bilanciamenti e contropoteri. L’Europa vigila sugli Stati che ne sono membri, sindacando ogni loro scelta o decisione, ma come si è visto nessuno è in grado di verificare il funzionamento della sua complessa struttura, di accorgersi di quel che accade, anche d’illecito e di grave, dentro o appena fuori i suoi palazzi. E’ l’antica legge degli apparati e delle organizzazioni che quando diventano elefantiaci bruciano risorse solo per alimentare se stessi, finiscono per diventare incontrollabili e perdono il senso della loro missione originaria. Questo è capitato evidentemente all’Europa e tornare indietro, per ricondurla alla sua più autentica funzione di libera associazione tra Stati che ne costituiscono la memoria profonda e la ragion d’essere storica, di unione politica tra popoli e nazioni diversi, di alleanza strategica tra democrazie accomunate da valori condivisi e interessi comuni, non sarà facile.

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