Mario Ajello
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Caso Dostoevskij/ Ma la guerra non può distruggere la cultura

di Mario Ajello
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Giovedì 3 Marzo 2022, 00:31


O la pensi come noi, o non parli, non suoni, non esisti. Quando si impone la legge della guerra al mondo della cultura, confondendo la sfera politica con quella intellettuale e artistica, si aggredisce uno dei principi fondanti della civiltà. Ovvero quello del libero scambio delle idee e delle esperienze, anche tra Paesi e persone schierate dal punto di vista degli interessi nazionali, statuali e militari su fronti opposti. È insomma un segnale bruttissimo la censura inflitta a Dostoevskij - la cui colpa due secoli fa fu di essere russo e dunque a sua insaputa putiniano: e verrebbe da ridere se non fossimo in una tragedia - o meglio al professore e scrittore Paolo Nori. L’università milanese della Bicocca aveva deciso di impedire, per motivi di ordine pubblico, per non offendere eventualmente gli ucraini e perché il politicamente corretto oggi deve spedire nell’immondizia della storia qualsiasi riferimento alla Russia, anche il più eccelso e inattaccabile, che Nori tenesse un ciclo di lezioni su quello che è stato uno dei colossi eterni della letteratura universale, l’autore di “Delitto e Castigo”, dei “Demoni”, dei “Fratelli Karamazov” e il simbolo di una forma di libertà che a suo tempo gli zar temettero al punto da condannarlo a morte (e Dostoevskij vi sfuggì all’ultimo istante, restando segnato per l’intera esistenza da quell’incubo scampato ed espiato a colpi di lavori forzati al freddo e al gelo della Siberia). Poi in extremis la rettrice della Bicocca ha posto ieri rimedio al macroscopico errore e dalla settimana prossima il corso accademico si terrà. 

Ma nel frattempo questo piccolo grande caso ha svelato una questione che rischia di accompagnarci per l’intera durata del conflitto in atto e di proiettarsi in altri episodi bellici se ci saranno e magari ci saranno visto che la guerra fa parte della vita. La questione è quella del voler militarizzare a tutti i costi la cultura, perfino quella rappresentata da Dostoevskij, uno di quei classici che dovrebbero avere una prossimità disarmante e invece a torto e per follia gli viene attribuito un valore divisivo e contundente. Come se la cultura non fosse sempre stata, e non dovrebbe continuare ad essere, un motore di dialogo, di scambio, di riconoscimento tra i popoli attraverso le loro voci più autorevoli e qualificate di ieri, di oggi e di domani. 

Ci vorrebbe più Dostoevskij, non meno. E ci vorrebbero, in Italia, università che non usino propagandisticamente la cultura, non impongano autori per cancellarne altri solo perché la contingenza suggerisce di farlo (oggi bisognerebbe leggere soltanto Gogol e Bulgakov perché, al contrario di Dostoevskij, erano ucraini?) e non si attribuiscano la facoltà di agire come tribunali della storia infliggendo la damnatio memoriae a giganti della storia o l’impraticabilità di campo a maestri del presente. Che senso ha, per esempio, impedire a Valerij Gergiev - il grande compositore d’orchestra - di esibirsi alla Scala, soltanto perché è russo e sostenitore non pentito di Putin? Il senso di questo ostracismo inaccettabile, di questa autarchia intellettuale da tempo di guerra come quella inflitta ancora più pazzescamente a Dostoevskij, il quale tra l’altro nel 1837 diceva che meraviglioso è sinonimo di italiano e ci adorava prima di sapere dall’aldilà che cosa gli stiamo combinando, va ricercato nello sproposito modaiolo della cancel culture: elimino ciò che, del passato e del presente, non rientra nei miei parametri ideologici.

Oltretutto, Gergiev doveva dirigere a Milano “La dama di picche” di Čajkovskij: e quale affermazione del carattere europeo della cultura russa è migliore di Čajkovskij? Non è stato solo il direttore di San Pietroburgo a subire una privazione, ma il pubblico o meglio la musica, e non rischiavano solo gli studenti della Bicocca a vedersi sottratto Dostoevskij ma rischiava l’intera Italia di fare una figuraccia, non del tutto evitata nonostante la goffissima retromarcia. 

Ecco, le sanzioni culturali danneggiano chi le applica. Perché svelano, a dispetto di altisonanti professioni di tolleranza e di apertura tipiche delle nostra cultura mainstream, un substrato illiberale e censorio che non si addice alla democrazia italiana. La cultura è mescolanza di ispirazioni, di talenti e di storie diverse. Se viene meno questo, perché ognuno per potersi esprimere deve indossare la divisa giusta, finisce tutto. E vince solo la guerra come padrona assoluta della scena. Insieme al ridicolo. Praticamente Dostoevskij si ritrova sulla lista dei proscritti (nella quale i videogiochi di Fifa22 hanno inserito anche la squadra di calcio russa ed è tutto dire) con la colpa di essere moscovita e di non potere, dopo 141 anni dalla sua morte, prendere le distanze dall’attuale Cremlino. Mentre a Gergiev si chiede un manicheismo, o molli Putin o molli la bacchetta almeno in Italia, che è una vera e propria stecca, se si pensa che a Furtwangler - il sommo rivale dell’anti-fascista Toscanini - pur sospettato di simpatie naziste dopo la seconda guerra mondiale non fu vietato di dirigere. E si potrebbe continuare in questa lista della cancel culture al tempo del conflitto in Ucraina. 

La mostra del fotografo Alexander Gronsky è stata annullata a Reggio Emilia, nonostante l’artista non sia affatto putiniano, anzi è stato arrestato in Russia durante una manifestazione contro la guerra, ma semplicemente russo. Così come la soprano Anna Netrebko che rinuncia ad esibirsi alla Scala in polemica contro la censura inflitta a Gergiev. E se l’Armata Rossa prende Kiev e la distrugge, che cosa accadrà, che in Italia saranno messi al bando insieme all’“Idiota” e al “Giocatore” l’intera letteratura russa degli ultimi secoli e dei prossimi? E finiranno al macero, tanto per dirne una, i dischi di quel genio di Shostakovich soltanto perché era di San Pietroburgo, membro del comitato centrale del Pcus e tifoso di Stalin (si legga uno straordinario romanzo di Julian Barnes: “Il rumore del tempo”) e quindi potenziale e futuribile fan di Putin? Suvvia. La censura culturale, perfino retrospettiva, non può essere la risposta all’attacco russo. E guai a dimenticare ciò che diceva Benedetto Croce, un liberale vero e oltretutto un pensatore molto laico e realistico anche a proposito della pace e della guerra: «I valori della civiltà e della cultura non appartengono certamente a un unico popolo».
 

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