L’incontro di ieri tra Giorgia Meloni e Papa Francesco, in occasione degli Stati Generali della Natalità in Italia, rilancia un tema sempre più attuale e drammatico: l’Italia è in crisi demografica. Significa che la popolazione è in declino, perché i decessi superano le nascite e le immigrazioni nette non compensano questo saldo negativo. Il fenomeno è in moto da anni, sia chiaro. Ma ne parlano principalmente gli addetti ai lavori. Che snocciolano cifre: calo delle nascite del 31% tra il 2008 e il 2023, calo della popolazione sotto i 48 milioni, dagli attuali 59, entro il 2070. Lo sanno anche, a dire il vero, i lettori del “Messaggero”, che da tempo dedica al tema editoriali e approfondimenti. Come al solito, tristemente, gli ultimi a scoprirlo sono invece i politici. Certo, si fanno conferenze, cui partecipa il Ministro di turno, dove si presentano numeri e si prendono solenni impegni. Salvo poi dimenticarsene o, altrettanto gravemente, attribuire poca importanza agli effetti che tutto ciò può comportare.
È un’ottima notizia quindi che nel “Documento di economia e finanza” (Def), approvato il mese scorso, il legislatore sembri aver preso finalmente sul serio la questione. Si parla infatti proprio di “crisi demografica” già nell’introduzione del lungo testo. E in maniera diffusa e adeguata anche al suo interno. A conferma di questa presa di coscienza, vi sono sia la proposta del ministro Giorgetti di “azzerare le imposte”, almeno come semplificazione, per chi ha figli sia l’impegno, peraltro già realizzato, di aumentare l’importo dell’Assegno unico famigliare. Sul fatto che sia giusto riconoscere, con servizi dedicati e sconti fiscali, il peso economico che sopportano le famiglie, probabilmente si è tutti d’accordo. Tante sono le possibilità per farlo. Dal punto di vista fiscale, il legislatore è passato dalle detrazioni per carichi famigliari all’Assegno unico universale, per poi tornare, come è stato fatto nelle ultime settimane, di nuovo sulle detrazioni (e deduzioni) fiscali.
Sullo sfondo, vagliata con curiosità altalenante a seconda dei tempi, l’ipotesi di introdurre anche in Italia il cosiddetto “quoziente famigliare”, con tutti i pro e i contro che la formula può avere ma con un imbattibile biglietto da visita: è la scelta adottata in Francia, uno dei pochissimi paesi dell’Unione europea in cui il numero di figli per donna (1,8) è ancora vicino alla soglia minima di mantenimento della popolazione, cioè 2.
È un fatto che interessa tutte le fasce di età, anche se con effetti e numeri diversi. Per esempio, i pensionati a volte preferiscono emigrare in paesi che offrono migliori trattamenti fiscali dei propri redditi previdenziali. Tuttavia, ciò che rende il fenomeno degno di nota è l’emigrazione dei più giovani, che decidono di concludere i propri studi all’estero o di andarsene subito dopo averli terminati. Ciò permette sicuramente un arricchimento del bagaglio di esperienze personali per queste persone. Il che, a sua volta, può avere effetti positivi anche sui paesi di origine. Ma in termini generali queste scelte sono un’indubbia sconfitta per il paese: chi emigra, tra i più giovani, lo fa non tanto per curiosità quanto per necessità, per l’impossibilità di vedere valorizzate le proprie capacità in Italia. Il malcontento, del resto, è sotto gli occhi di tutti: e le proteste per il caro affitti, più o meno motivate a seconda delle opinioni, lo dimostrano. Si tratta di un chiaro e drammatico referendum sullo stato di salute della nostra società: solo che il voto negativo, invece di essere inserito in un’urna, prende la forma di un biglietto aereo. Troppo spesso di sola andata. Fa benissimo dunque il governo a preoccuparsi della scarsa natalità. Ma a cosa serve un paese che fa nascere più bambini se questi, una volta adulti, se ne vorranno comunque andare?