Alessandro Campi
Alessandro Campi

Il Paese diviso/ Quel voto francese così legato all’Ucraina

di Alessandro Campi
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Lunedì 11 Aprile 2022, 00:16

Emmanuel Macron contro Marine Le Pen, distanziati secondo i primi exit poll ufficiali di quasi cinque punti: 28% per il presidente uscente, 23,2% per la sua (ormai storica) sfidante. Una sorpresa? No, visto che i sondaggi degli ultimi giorni avevano ampiamente registrato il recupero della leader del Rassemblement national.
Un risultato tranquillizzante per l’attuale inquilino dell’Eliseo? Dipende ovviamente da come si distribuiranno al secondo turno i voti ottenuti dagli altri candidati. Chi voteranno gli elettori di Zemmour (destra radicale) e Valérie Pécresse (destra repubblicana), che in totale fanno un 10% abbondante? E come si comporteranno i sostenitori di Jean-Luc Mélenchon, che sull’anti-macronismo pregiudiziale ha fondato tutta la sua campagna elettorale ottenendo un cospicuo 21,7%? 

A caldo le indicazioni di voto di tutti i leader rimasti fuori dalla competizione (tranne Zemmour) non lasciano dubbi: si profila un fronte di salvezza repubblicano e anti-destra come già nel 2017. In considerazione del momento difficile, per la Francia, per l’Europa, non è il momento per concedersi avventurismi o salti nel buio. Lo stesso Mélenchon, che aveva detto in campagna elettorale che mai avrebbe fatto votare al ballottaggio per Macron, ha detto ieri sera che non bisogna dare un solo voto alla Le Pen. Vedremo fra quindici giorni (...)
quanto i capi-partito sono i padroni dei loro voti e quanto gli elettori faranno invece di testa loro, magari anche solo andando ad ingrossare le fila dell’astensionismo. La partita, chiusa all’apparenza, resta in realtà aperta e incerta. Si vota d’altronde in un clima particolare, molto segnato dalle emozioni del momento. Basta pochissimo, con una guerra in corso, a far fluttuare il voto da una parte o dall’altra. 
Dunque, la “femme d’état” (secondo un azzeccato slogan lepenista) contro “l’homme d’état” attualmente al potere. Ma al ballottaggio previsto tra quindici giorni lo scontro non sarà tra la destra e la sinistra tradizionalmente intese. 
Questa storica dicotomia, in crisi da anni a causa delle nuove linee di frattura create dalla globalizzazione (inclusi/esclusi, vincitori/perdenti, centro/periferia), rischia infatti di essere spazzata via dalla guerra in corso e dalle nuove divisioni che essa sta creando nelle diverse società democratiche. La Francia andata ieri al voto non ne è che il primo esempio. Ma attenzione a quel che potrebbe accadere anche in Italia in vista del voto del prossimo anno.

Già alle presidenziali del 2017 Macron aveva prosperato sulle rovine dei partiti tradizionali (socialisti e gollisti) e delle loro declinanti ideologie. Dai primi aveva preso l’opzione riformista traducendola però in una versione tecnocratica, da dirigista poco disposto a mediare con le parti sociali. Dai secondi aveva introiettato la cultura dell’ordine pubblico, la visione nazionale in politica estera e il senso pragmatico e razionale dello Stato. Il tutto in una chiave di personalismo spinto: anti-ideologico e anti-partitico.
Nato nei ranghi della sinistra socialista, negli anni Macron si è spostato sempre più verso un centro-destra liberale, elitario ed europeista. Un percorso opposto a quello realizzato da Marine Le Pen: dall’estrema destra anti-europea, autoritaria e xenofoba verso una destra che prospera soprattutto sul disagio sociale ed economico, sulle ansie esistenziali delle fasce più deboli, parlando un linguaggio che sembra quello della sinistra popolare del passato. Un fenomeno studiato da tempo, seguendo la cartografia elettorale di un partito che cresce nei consensi laddove aumentano la disoccupazione, il tasso di povertà, la rabbia e la frustrazione.

Le carte della politica in Francia erano insomma già abbondantemente confuse rispetto agli schemi lineari di un tempo. La guerra ha complicato ancora di più il quadro. Nelle ultime settimane Macron ha tralasciato la campagna elettorale per concentrarsi sulla guerra tra Russia e Ucraina, alla ricerca di un successo diplomatico che fosse anche personale. Con gli alleati europei ha condiviso la linea interventista di pieno sostegno (politico e militare) all’Ucraina. Quel che il voto di ieri sembra mostrare (inclusa la crescita dell’astensionismo di quattro punti) è l’esistenza di un sentimento sotterraneo che di una guerra troppo prolungata teme, dopo gli anni difficili della pandemia, soprattutto i possibili riflessi negativi sul reddito delle famiglie e sul proprio tenore di vita. Un sentimento trasversale, senza un particolare colore politico, che sarebbe sbagliato ridurre ad una qualche forma di simpatia politica verso la Russia. “Morire (anche solo di freddo) per Kiev?”: è la domanda cinica, trasudante egoismo e paura, che serpeggia nel profondo delle società europee.
La Le Pen ha intercettato esattamente questi umori.

Ha dunque funzionato, nel suo caso, una efficace miscela di neo-femminismo decisionista, nazional-patriottismo di marca neutralista o non-interventista, identitarismo franco-francese senza più cadute razzistiche, attenzione alle classi popolari ormai dimenticate dalla sinistra, paura per il futuro condivisa dalle nuove generazioni, risentimento sociale contro le élite e anti-macronismo ideologicamente trasversale. La vicenda dei ‘gilet gialli’, oggi rimossa dalle cronache e riassorbita dal punto di vista dell’ordine pubblico, ha lasciato in realtà lacerazioni profonde nel tessuto della Francia. Altrimenti non si spiegherebbe il 45% ottenuto dai due campioni storici del populismo d’oltrealpe: appunto la Le Pen e il trotskista Mélenchon.

Si diceva degli altri candidati. Zemmour doveva essere la cattiva sorpresa di questo voto. Dopo un inizio stentato, era arrivato al 18% nei sondaggi. Aveva annunciato una “riconquista” politica nel nome dei valori fondati la storia della Francia. Il suo cupo ideologismo identitario non ha funzionato. Ma ad affossarlo definitivamente è stato il suo ottuso filo-putinismo: ostentato in modo provocatorio, come quando ha negato qualunque aiuto agli ucraini in fuga dalla guerra, è riuscito a far dimenticare che anche la Le Pen era stata un’ammiratrice dell’autocrate del Cremlino. Al dunque la funzione di Zemmour in queste elezioni è stata solo quella di legittimare la destra lepenista agli occhi dell’elettorato conservatore. A proposito di quest’ultimo, la storia (gloriosa) del gollismo francese sembra definitivamente finita col misero 5% rimediato da Valérie Pécresse: borghese, conservatrice, cattolica, sgobbona, ma incolore e poco convincente, senza un’idea originale e con troppi nemici nel suo stesso partito (a partire da Sarkozy). La scorsa volta François Fillon, sebbene bersagliato dagli scandali, aveva perso con onore, superando il 20%. Quella di ieri è una débacle che difficilmente si può spiegare con i contrasti interni al mondo della destra repubblicana. Se ne sono andati gli elettori, probabilmente per sempre. L’ala conservatrice-liberale ha scelto Macron. Quella social-popolare e tradizionalista ha preferito la Le Pen. Ma lo stesso potrebbe dirsi, quanto a fine ingloriosa, per tutte le diverse espressioni della sinistra francese, dai socialisti (definitivamente scomparsi) ai verdi, per arrivare ai comunisti storici. L’unità della sinistra era un dogma nel passato. Oggi siamo ad una frammentazione che sconfina nell’irrilevanza. La partita dell’Eliseo, ballottaggio incluso, si è interamente giocata tra le diverse possibili sfumature della destra. Di sinistra resta solo il voto a Mélenchon, che però non ha dietro di sé una forza sociale organizzata: è solo un istrionico capo-popolo, dall’eloquio forbito e trascinante, dimostratosi capace anche stavolta di intercettare il malessere sociale e la disperazione dei francesi che si sentono trascurati dal potere. Era al suo secondo tentativo, ha settantuno anni, la sua romantica voglia di ”jacquerie” probabilmente finisce qui per sempre.

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