Beniamino Caravita di Toritto

Oltre i populismi/ Il partito che manca alla classe dirigente

di Beniamino Caravita di Toritto
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Venerdì 21 Maggio 2021, 00:10

Se i processi politici che si sono messi in moto nei primi mesi del 2021 andranno avanti – e tutto lascia pensare che così sarà, a prescindere dal soggetto che concretamente assumerà fra qualche mese la carica cruciale di Presidente della Repubblica – assisteremo probabilmente in Italia al più grande ribaltone politico, istituzionale e culturale degli ultimi trent’anni, vale a dire a partire da quella fase che – collegata alla caduta del Muro di Berlino e a Tangentopoli – viene individuata come l’inizio della crisi (in realtà, infinita) della Prima Repubblica. Sembrano infatti giunte al capolinea le due linee di tendenza politico-istituzionali che hanno dominato – confusamente, ma con una certa nettezza di direzione – questi tre decenni.

Sta infatti fallendo il progetto ispirato al democraticismo populista, che pensava di dirigere le moderne società liberali, democratiche, sociali, attraverso un impasto in cui la democrazia diretta, aggirando gli inevitabilmente complessi processi democratici rappresentativi, si legava a figure di capi carismatici in grado di creare meccanismi di identificazione tra masse e leader. Non c’è bisogno di scendere ad esempi, nel presente e nel passato. Nel contempo sta fallendo anche quel disegno per cui si pensava che la direzione delle moderne democrazie sociali potesse avvenire non già attraverso una normale, ordinata, fisiologica, continua dialettica tra legislatori e giudici, bensì attraverso forme, totalmente autoreferenziali e sottratte ad ogni verifica democratica, di controllo legalitario esterno e astratto. Si trattava, e si tratta ancora, di due progetti pericolosi, giacché intimamente autoritari e antidemocratici, che, tuttavia, nelle ricorrenti fasi di crisi che, non solo in Italia, abbiamo attraversato, erano sembrati la risposta più rapida e più facile, la scorciatoia che i modelli democratici avevano davanti per poter funzionare senza apparenti contraccolpi: ampi settori intellettuali avevano irresponsabilmente ceduto a queste sirene. 

Sconfitte queste linee di tendenza (ma ancora occorre tenere gli occhi aperti, per evitare colpi di coda), non c’è dubbio che occorrerà far ripartire i processi della democrazia rappresentativa, ripristinare i corretti circuiti, facendo finalmente leva all’interno di essi sulla competenza e sul merito, e facendo tesoro delle tante lezioni che si possono trarre anche da questa ultima crisi (basti pensare all’impatto che ha avuto sulle modalità di lavoro, sulla mobilità, sullo sfruttamento degli spazi, sulla distribuzione della ricchezza). 
Il tema oggi è: chi è l’interlocutore di questi processi, di questi veri e propri sommovimenti tellurici? La sensazione è che non ci sia ancora un interlocutore politico in grado di intercettarli, recepirli e trasformarli in indirizzo politico, mentre vi sia – in nuce – un interlocutore sociale.

Nelle democrazie contemporanee, liberali e sociali, non vi è più una contrapposizione tra ristrette elites oligarchiche e masse popolari deboli e emarginate.

Per quanto negli ultimi decenni si sia assistito nell’area della classe media a fenomeni importanti di impoverimento e di blocco della mobilità sociale, le nostre società occidentali sono caratterizzate dalla presenza di una amplissima area che si può largamente ricondurre al concetto di classe dirigente: si tratta di milioni di persone (il cui peso specifico vale però tre-quattro volte tanto), dal professionista all’imprenditore, dal funzionario pubblico a quello privato, dai docenti ai tecnici qualificati, dagli operatori della sanità a quelli del turismo a quelli dei servizi, che costituiscono l’ossatura del paese, il luogo e lo strumento della creazione di valore aggiunto, della formazione e della circolazione di quel patrimonio di idee che costituiscono la vera ricchezza di un paese che non vuole rinunciare a crescere. Né sembri esagerato chiamare questa area “classe dirigente”: è proprio con il consenso di questi ampi e ramificati settori sociali che si forma, si dirige, si indirizza un paese.

Manca però oggi in Italia l’interlocutore politico di quest’area: l’operazione che riuscì negli anni ‘60 alla Democrazia cristiana, che non riuscì ai Repubblicani negli anni ’70 e ai Socialisti negli anni ’80, che tentò negli anni ‘90 Forza Italia, che di nuovo non riuscì a Scelta civica nel primo decennio del secolo (che non si seppe porre come partito di massa), che avrebbe potuto riuscire al Pd nello scorso decennio, non sembra oggi alla portata di nessuno dei partiti italiani, per come si sono concretamente strutturati. Tutti appaiono schiacciati in una visione che li vede, da un lato influenzati dalle elites, dall’altro posti all’inseguimento del voto delle masse, ma nessuno ancora in grado di intercettare compiutamente il consenso di quella che abbiamo definito la classe dirigente del paese e trasformarlo in indirizzo politico. In verità, quel partito che, senza abbandonare il suo radicamento sociale, per primo capirà come costruire il consenso in questa area avrà vinto la scommessa politica dei prossimi venti anni.

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