Pio d'Emilia
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Le Olimpiadi di Tokyo e quegli atleti “rifugiati”

Le Olimpiadi di Tokyo e quegli atleti “rifugiati”
di Pio d'Emilia
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Lunedì 24 Maggio 2021, 02:55 - Ultimo aggiornamento: 23:46

«Non so più se augurarmi che queste Olimpiadi, le mie prime Olimpiadi, alla fine si facciano, oppure che vengano di nuovo rinviate o cancellate. Perché così potrei restare ancora in questo Paese meraviglioso, un vero paradiso, per noi».


A parlare così è Abraham, un giovane atleta sud-sudanese che da oltre un anno è ospite – in tutti i sensi – della piccola città di Machida, nella prefettura di Gunma, ad un centinaio di chilometri dalla capitale Tokyo. Abraham è arrivato in Giappone assieme ad altri 3 atleti, uno dei quali, Michel, disabile, e al loro allenatore Joseph, nella primavera del 2020.

Come tante altre squadre, anche quella del Sud-Sudan, un Paese nuovo, “nato” appena dieci anni fa, ma subito colpito da una sanguinosa guerra civile che ha provocato mezzo milione di morti e oltre 4 milioni di profughi, aveva deciso di accettare l’ospitalità di una piccola città giapponese per un periodo di acclimatizzazione in vista delle Olimpiadi (che si dovevano tenere lo scorso luglio). Ma poi i Giochi sono stati rinviati e l’idea di dover rientrare in un Paese ancora sconvolto dalla guerra civile, per poi tornare dopo pochi mesi in Giappone, creava non pochi problemi, anche e soprattutto di ordine economico.

A trovare la soluzione ci ha pensato Ryu Yamamoto, sindaco della città: lanciando un appello alla cittadinanza (circa 300 mila persone). «Nel giro di pochi giorni abbiamo raccolto oltre 300 mila dollari – spiega Shinichi Hagiwara, consigliere comunale e responsabile della campagna di sottoscrizione – siamo rimasti davvero stupiti di tanta solidarietà la gente non solo mandava i soldi, ma in comune arrivava di tutto, vestiti, libri, roba da mangiare». La notizia supera immediatamente i confini locali e arriva una troupe della Nhk, la radiotelevisione di stato: Machida diventa la capitale della solidarietà, e non solo sportiva. Per un Paese che accetta ogni anno solo una manciata di rifugiati (nel 2020, appena 61, il numero più basso dei paesi Oecd), dove gli stranieri sono guardati sempre e comunque con sospetto e dove i pochi migranti clandestini che riescono ad entrare vivono nel costante timore di essere deportati (nei giorni scorsi è scoppiato il caso di una donna dello Sri Lanka morta in un centro di detenzione, per mancanza di cure adeguate) l’esempio di Machida ha mostrato che anche la società giapponese, come avviene in molti altri Paesi, è molto più “aperta” e solidale di quanto lo siano le autorità di governo e le leggi attualmente in vigore.

«Noi tutte queste cose non le sappiamo – spiega Joseph, 44 anni, ex maratoneta e ora allenatore dei 4 atleti – sappiamo solo che siamo arrivati qui provenienti dall’inferno e ci siamo ritrovati in paradiso.

La gente qui è fantastica, gentile, premurosa, e al tempo stesso riservata. Anche loro, i giapponesi, sono sopravvissuti ad una guerra terribile: vedere come sono riusciti a costruire una società efficiente e rispettosa per noi rappresenta una speranza. Forse un giorno anche noi ci riusciremo, nel nostro Paese». Joseph, a differenza di almeno due dei giovani atleti, che a questo punto vorrebbero restare comunque in Giappone (hanno perfino imparato la lingua) non vede l’ora di tornare a casa. «Ho due mogli e 17 figli, di cui 14 maschi, che mi aspettano», spiega orgoglioso, mostrando le foto che porta sempre con sé. Abraham, che aspira ad un posto nella finale dei 1500 metri, invece vorrebbe restare qui: pare (ma non lo dice lui, sono voci che circolano) che si sia innamorato e che voglia sposarsi con una giovane atleta locale, incontrata durante gli allenamenti.

Appena gli dico che sono italiano i suoi occhi si illuminano. «Io sono qui grazie ad un italiano – ci spiega – si chiama Simone, ci siamo incontrati in Uganda, io studiavo lì, tanti anni fa. Mi piaceva correre e lo facevo a piedi nudi, per strada. Lui mi fermò, cominciò a chiacchierare e poi mi accompagnò in un negozio, per comprare delle scarpe. Le mie prime scarpe, che ancora conservo gelosamente. Poi ne sono arrivate altre, e anche altro tipo di equipaggiamento… insomma, Simone, che ora è tornato in Italia, è stato il mio primo sponsor, se non fosse stato per lui, oggi non sarei qui». Anche questo, un bell’esempio di solidarietà “planetaria”, bello che ci sia anche un pizzico di Italia. 

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