Alessandro Campi
Alessandro Campi

Musei e sit-in/ Il nuovo populismo in nome del clima

di Alessandro Campi
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Lunedì 14 Novembre 2022, 00:16

Imbrattare i quadri con la zuppa nei musei, bloccare il traffico mentre la gente va al lavoro, e tutto questo con l’idea di salvare il mondo?

Messa così è una domanda da vecchio benpensante, da anzianotto politicamente retrivo incapace di capire quale sia la posta in gioco reale di queste nuove forme di contestazione. Sempre più diffuse nel mondo (quello libero, come sempre, dove a protestare si rischia davvero poco, non siamo mica in Cina, Egitto o Iran) e aventi come protagonisti indiscussi giovani e giovanissimi.

Il loro, si dice, è un nuovo protagonismo collettivo. Si è riaperta la stagione delle mobilitazioni dal basso, mentre la politica ufficiale dei governi si mostra sempre più sorda e impotente. Con la differenza che stavolta si lotta per un obiettivo assoluto: la salvezza del mondo.

La globalizzazione ha globalizzato anche lo spirito di rivolta sin dai tempi delle manifestazioni pacifiste del febbraio 2003 contro la guerra degli americani all’Iraq. Ma dopo vent’anni, per protestare contro la guerra della Russia all’Ucraina, non si sono viste le stesse folle scendere in piazza, né in Italia né altrove. L’indignazione spesso segue una morale altalenante, condizionata dall’ideologia. La verità, si sostiene per giustificare questo doppio standard, è che oggi ci sono altre urgenze: la fine del pianeta nello spazio di qualche decennio.

Dopo la pandemia, con l’aggravarsi della crisi climatica, persino la guerra sembra diventata una preoccupazione minore.
Da qui le azioni eclatanti di attivisti e militanti, tipo appunto il vandalismo soft contro le opere d’arte o sit in sulle arterie trafficate, per sensibilizzare cittadini e potenti sull’apocalisse che rischia seriamente di cancellare il mondo e l’umanità? Ma funziona? S’è aperta una nuova stagione di dissenso civile destinato a cambiare la politica e i suoi attori? A furia di prendersela con Van Gogh, Goya e Picasso o di esasperare gli automobilisti alla fine capiremo?
In realtà, quella che in azione sembra solo l’altra faccia del populismo tanto vilipeso nel discorso pubblico. Una sindrome che si tende a vedere sempre nell’occhio altrui, immaginando di esserne immuni. Per esempio, si biasima chi usa la paura come strumento di consenso politico: l’immigrazione descritta allarmisticamente come un’invasione. Ma il terrore da fine del mondo utilizzato come arma di persuasione e condizionamento è forse un argomento meno demagogico? Tra gli “imprenditori politici della paura”, come dicono i sociologi che parlano sociologese, non dovremmo forse inserire anche i professionisti del radicalismo ambientalista?
Il populismo convenzionalmente inteso, questa l’altra accusa, azzera la rappresentanza e la mediazione politica: il capo e il popolo, in mezzo niente. Nel caso dei nuovi movimenti ecologisti di protesta, la pretesa è nientemeno di rappresentare gli interessi dell’intera umanità, togliendo alla politica istituzionale (ai singoli Stati e governi, ai partiti) ogni legittimazione e ruolo. Pretendere di fare politica avendo come orizzonte la catastrofe, peraltro imminente, non permette alcun cambiamento reale. Insomma, populismi concorrenti, nella migliore delle ipotesi, due forme dell’antipolitica, che rendono impossibile qualunque mediazione o riforma o discussione. Tutto e subito, chiedono gli integralisti dell’ambientalismo con uno spirito da millenarismo pseudo-religioso che li rende fanatici e intolleranti quanto i loro omologhi islamisti o cristianisti, anche se rispetto a questi ultimi fanno decisamente più simpatia. 
Ma aggiungiamoci anche la presunzione di moralità tipica di tutte le autoproclamate avanguardie sociali e politiche: i pochi che agiscono per i molti obnubilati dal conformismo e da una falsa promessa di benessere. Tutte le culture rivoluzionarie del Novecento ci hanno riproposto questa tiritera foriera sempre di pessime realizzazioni: la verità posseduta dagli eletti contro l’ignoranza delle masse. Ma possibile che non ci sia virtù o saggezza nel comportamento delle maggioranze? 
Come non bastasse quelle cui stiamo assistendo sono, nessuno dei protagonisti si offenda, proteste largamente ad uso di social e telecamere. Che ne amplificano il messaggio ma al tempo stesso lo scolorano per eccesso di reiterazione. Stiamo assistendo ad uno spettacolo blando che acquieta la buona coscienza ma non produce altro che una generica riprovazione e moltissimi applausi di compiacimento. La rivolta all’acqua di rose.
Una protesta senza peraltro rischi personali e senza repressione (si tranquillizzino gli intellettuali che temono stati di polizia che consenta loro di recitare la parte dei martiri del pensiero), condotta in un universo politico-mediatico che ormai assorbe e metabolizza tutto. E che rischia di non fare differenza tra il coraggio del dissenso e un anti-conformismo confortevole e generico. 
Le ragazze che in Iran danno scappellotti ai turbanti degli imam per strada puntano anch’esse alla spettacolarizzazione e al turbamento delle coscienze, in compenso rischiano anche la vita. Le loro omologhe a Roma, Amsterdam e Chicago al massimo si beccano una sanzione amministrativa o uno scappellotto dai genitori. Se permettete, non è la stessa cosa. Da un lato si lotta per la libertà, dall’altro si gioca alla lotta in assoluta libertà. Quanto al carattere effettivamente provocatorio delle loro gesta, c’è da dubitarne. La trasgressione che diventa pedagogia pedante lascia davvero il tempo che trova, soprattutto nell’arte, dove francamente abbiamo già visto di tutto. Per restare in Italia, la grandezza delle teste false di Modigliani (Livorno, 1984) fu che si trattava di una beffa assoluta: una goliardata che mise a nudo la supponenza degli accademici e la credulità dei media. La genialata della fontana di Trevi colorata di rosso (Roma, 2007) fu di rappresentare un inno al vitalismo: una performance di stile futurista, una rivolta solitaria nel nome dell’estetica, sorella maggiore dell’etica.
Al prossimo assalto nei musei coi piselli in scatola (sì, l’abbiamo capito, una pseudo-citazione di Andy Warhol e delle sue zuppe Campbell’s riprodotte all’infinito come simbolo della mercificazione), scusate, ma ci faremo uno sbadiglio. I gesti reiterati e tutti eguali non creano una nuova coscienza del mondo, semplicemente annoiano. Le provocazioni che funzionano sono sempre assolute e uniche. 
Tutto ciò detto, i ragazzi e le ragazze che protestano - in modo ora pittoresco ora oggettivamente fastidioso - hanno le loro ragioni.

Vogliono contare e sperare. Hanno riguardo l’ambiente una sensibilità nuova e migliore delle generazioni precedenti. Hanno idee e convincimenti forti e fanno bene ad esternali. Possono essere, con la loro passione, uno stimolo oggettivo per la politica. Ma sbagliano a pensare che dalla disperazione e dall’assenza di speranza possano nascere soluzioni ai loro (e nostri) problemi. Che tutto il mondo degli adulti congiuri contro di loro (perché mai?). Sbagliano a fidarsi di chi blandisce le loro battaglie e slogan magari per costruirci sopra una bella campagna pubblicitaria. Sbagliano soprattutto a presentarsi come l’ultima generazione (tranquilli, ce ne saranno molte altre) e a non capire che manifestare limitando la libertà altrui, come sempre più spesso capita, non è mai una buona idea: le maggioranze, come le formiche, alla fine perdono la pazienza.

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