Paolo Pombeni
Paolo Pombeni

Miti da sfatare/ Le distorsioni (da superare) della società globalizzata

di Paolo Pombeni
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Martedì 19 Aprile 2022, 00:36

Per scoprire l’importanza della globalizzazione non ci voleva certo la guerra, ma questa guerra porta ad approfondire molti aspetti di quel fenomeno. Dopo molte infatuazioni per qualcosa che sembrava segnare un altro passo avanti in quella specie di progresso eterno che tanti sognano ne veniamo scoprendo molte ambiguità. Prima di tutto è crollata di nuovo l’illusione che una forte interdipendenza economica fra le nazioni fosse la sicura base se non per la pace perpetua, per una marginalizzazione della “grande guerra”. Il mondo ha già conosciuto questa fase negli anni precedenti lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, perché anche allora fioriva una letteratura sull’impossibilità che le grandi nazioni europee che sempre più commerciavano e scambiavano beni con grandi vantaggi reciproci potessero pensare di mettere tutto in gioco per tornare ai confronti fra “potenze”.

Sappiamo come è andata a finire. Certo oggi la globalizzazione è qualcosa che va oltre lo scambio di merci e beni, perché coinvolge spostamenti massicci di individui e soprattutto, grazie alle tecnologie informatiche, ha creato quello che banalmente viene definito il villaggio globale, dove, con un po’ di esagerazione, tutti sono in grado di avere continuamente informazioni su tutto.

Proprio in questi mesi difficili siamo stati messi di fronte alla (molto relativa) novità che tutti possono essere manipolati da tutti. Non è solo il fatto che viviamo in un contesto in cui le false informazioni, le ormai famose fake news, circolano a rotta di collo. La creazione di verità di comodo è una storia vecchia più o meno come il mondo. Ad essere nuovo è il fatto che con l’alluvione di informazioni da cui siamo bombardati si è diffuso uno spirito di diffidenza globale, magari fatto passare per spirito critico. Sappiamo bene che in un mare di notizie per forza di cose ce ne sono molte di false, manipolate, ingannatrici, ma per mostrare che non ci facciamo irretire siamo spinti a dubitare di tutte. Così forse non passeranno le informazioni “sbagliate”, ma anche quelle “giuste” non riusciranno ad imporsi per il dubbio che tali non siano. Alla fine la scelta di quali riconoscere come affidabili, come meritevoli di essere accettate, si risolve in una specie di atto di fede: accetto quello che, spesso sulla base dei miei pregiudizi, di modi di pensare che ho ereditato e sedimentato, mi può andare bene (compreso il fatto di non farmi accettare quasi nulla, così faccio un po’ quel che voglio, ma penso anche di essere un superiore intelletto critico).

Non si pensi che stiamo banalizzando un fenomeno in fondo quasi di costume. Abbiamo già visto durante la pandemia i guasti di questi contesti. Con la ripresa dei grandi conflitti “imperiali”, perché al momento è quanto sta accadendo, nell’arsenale del confronto arrivano tutti gli strumenti per creare ingorghi comunicativi nelle diverse pubbliche opinioni. E’ qualcosa di più e di diverso dalla vecchia “propaganda” (che peraltro continuerà ad esistere): è il lavoro inteso a minare ciò che una volta si chiamava la fede pubblica nelle autorità.

Contesti nazionali, ma anche inter-nazionali dove domina il dubbio sistematico nell’interpretazione da dare su quanto accade diventano instabili, difficili da governare e da indirizzare verso obiettivi condivisi, poco disponibili alla solidarietà sociale.

Ormai tutti investono nella “invasione” del web, dove peraltro non si tratta solo di conquistare alle proprie tesi un buon numero di soggetti, ma anche semplicemente di inquinare i pozzi, come si direbbe con una vecchia immagine: se istilliamo il dubbio che tutti i pozzi siano avvelenati, pochi si disseteranno a quelli che trovano sulla loro strada. Come si organizzeranno i sistemi di governo rispetto a questa realtà? Da una parte saranno costretti ad inserirsi in questi sistemi di produzione di notizie, a voler conquistare ciascuno un proprio territorio nel grande web. Alcuni lo faranno mossi da preoccupazioni di buona politica, altri da intenti manipolatori col fine di espandere il proprio dominio e imporre sudditanze. Dall’altra parte dovranno inventarsi strumenti per tenere sotto controllo questo caos di informazioni in modo da evitare di rimanere privi di strumenti per gestire la pubblica opinione. I sistemi totalitari sanno già come fare (per quanto un po’ sopravvalutino le loro capacità di controllo), i sistemi democratici affrontano dilemmi politici ed etici perché fanno i conti col principio della libertà di pensiero e di opinione.

Peraltro poi i problemi che pone la globalizzazione non si fermano qui. Il più semplice da spiegare, sempre in relazione a quanto sta accadendo, è la crisi del principio per cui non vale più la pena che ciascuno cerchi un minimo di autosufficienza: i beni e le risorse si producono là dove costano meno e poi ciascuno ricorre al mercato globale. Ottimo in un sistema di libero scambio dove tutto funziona su leggi universali orientate alla almeno relativa solidarietà reciproca. Non funziona più quando il meccanismo si inceppa.
Se l’Ucraina non produce più e non riesce a vendere grano si va verso la fame in Africa. Se non è più possibile acquistare il gas russo, perché così finanziamo l’imperialismo di Mosca, ci troviamo in difficoltà. Sono due fatti banali su cui si discute molto e adesso ci si chiede perché non si è pensato che un sistema di pochi oligopoli che producono e controllano certi beni avrebbe potuto creare non pochi problemi, per cui forse quel principio entusiastico verso la divisione globale dei sistemi di produzione dovrebbe essere sottoposto a qualche ripensamento.

Insomma si fa presto a parlare di globalizzazione, sia presentandola come il ritorno al paradiso perduto, sia dipingendola come la riproposizione di un grande inganno. Converrebbe di più ragionarci a fondo, perché comunque sia questo villaggio globale rimarrà quello in cui dobbiamo vivere e dunque sarà meglio attrezzarsi a viverci in maniera adeguata.
 

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