Giustamente concentrati sul caso ucraino e sui rapporti fra Mosca e Pechino, stiamo mettendo in secondo piano alcuni recenti eventi che avranno invece una decisiva influenza sul nostro futuro. Sessant’anni fa avevamo salutato, con partecipazione e favore, il processo di decolonizzazione e la progressiva adesione alla democrazia della maggioranza dei paesi africani. Ci stiamo invece accorgendo che, schiacciata tra il terrorismo e l’autoritarismo, la democrazia sembra arretrare in molte aree del continente. L’allarme più recente arriva dai paesi del Sahel, l’immensa regione che si estende a sud del deserto del Sahara, una regione sempre rimasta legata alla Francia sotto tutti gli aspetti, economici, politici e culturali. Nel Sahel i colpi di stato si sono moltiplicati a ritmo serrato a partire dal 2020: prima in Mali poi in Chad e in Guinea, e quindi in Burkina Faso e, di nuovo, in Mali.
Gli eventi di quest’ultimo paese toccano particolarmente noi europei. Nove anni fa, infatti, di fronte all’avanzata dei terroristi, resi forti degli armamenti sottratti agli arsenali di Gheddafi, la Francia aveva inviato un contingente di cinquemila soldati per proteggere il sud del Mali e, soprattutto, la sua capitale Bamako. Dopo nove anni e dopo che, con la Francia si sono schierati numerosi paesi europei, anche se con contingenti limitati, il governo generato dal golpe militare ha adottato una politica duramente antifrancese e antieuropea rivolgendosi soprattutto contro l’esercito francese, accusato di avere agito non per perseguire l’obiettivo di combattere i terroristi, ma per conservare le tradizionali leve di potere sul Mali. A questo cambiamento di politica si sono accompagnate significative e pesanti azioni concrete. Al contingente militare danese, intervenuto a fianco della Francia, è stato dato ordine di lasciare il paese e l’ambasciatore francese Joel Meyer è stato espulso dal Mali come misura di ritorsione per le prese di posizione del Ministro degli esteri Le Drian.
Ancora più inquietante è tuttavia la conclusione di un accordo con i mercenari russi del gruppo Wagner che, già presenti in Libia, nella Repubblica Centraficana e in Mozambico, sono arrivati a Bamako in un numero che si stima attorno al migliaio. Non posso a questo punto fare a meno di ritornare, col ricordo, a nove anni fa quando, trovandomi a Bamako come inviato dell’Onu, ebbi l’occasione di assistere alla diffusa gioia del popolo maliano all’annuncio della decisione della Francia di inviare l’esercito per difendere il Mali dal terrorismo. Vedere oggi le immagini della stessa folla che, nelle stesse strade, plaude all’arrivo dei mercenari russi (arrivati per sostituire i francesi), mi conferma che l’azione degli eserciti, senza l’accompagnamento di un’adeguata azione politica, è destinata ad avere breve durata. Senza la politica la gratitudine si trasforma rapidamente in ostilità.
Questi avvenimenti stanno naturalmente provocando un acceso dibattito in Francia, dove si discute se restare, partire o cambiare strategia.
Per ora ci limitiamo ad osservare con interesse, e anche con una pur prudente speranza, i tentativi di mediazione che l’Algeria sta portando avanti per risolvere la crisi del Mali che purtroppo, almeno fino ad ora, non sono riusciti a prospettare una soluzione accettata. Ricordiamo però che il 17 e il 18 di questo mese è in calendario a Bruxelles il sesto vertice fra l’Unione Europea e l’Unione Africana. Un vertice che si svolge dopo ben cinque anni da quello precedente. Si parlerà di ambiente, di investimenti, di sanità e di tanti altri problemi, ma è ora di mettere mano anche alla definizione del quadro complessivo dei rapporti fra Africa ed Europa. Rapporti che, finora, sono stati affidati ai singoli paesi e che essi hanno sempre tentato di risolvere, come nel caso del Mali, pensando al loro proprio passato e non al comune futuro.