Pio d'Emilia
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Anche la mafia giapponese penalizzata dalla pandemia

La polizia presidia il cimitero di Kobe
di Pio d'Emilia
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Domenica 20 Febbraio 2022, 23:15

Sono arrivati alla spicciolata, non tanto per non dare nell’occhio – il luogo era comunque presidiato da centinaia di poliziotti, sia in borghese che in tenuta anti-sommossa – quanto per non violare le pur blande disposizioni anti pandemia che il Giappone “suggerisce” (la Costituzione vieta di legiferare in tema di libertà personale) ai suoi cittadini. E che i suoi cittadini, per la maggior parte, rispettano. Come quella di evitare assembramenti. Alla fine, sono sfilate oltre 500 persone, di ogni età e provenienza: da vecchi boss ultraottantenni, un paio dei quali in sedia a rotelle, accompagnati da figli e nipoti, ai giovani chimpira, gli “apprendisti”, chiamiamoli così.

C’erano anche “delegati” di quasi tutte le province del Giappone, con i loro variopinti furoshiki (fazzolettoni in cui in Giappone si avvolgono i regali, ma anche eventuali “bustarelle”) pieni di cibo prelibato, l’immancabile sakè e…quant’altro. 


Siamo nel cimitero di Kobe, alma mater della yakuza, la cosiddetta “mafia” giapponese. Qui, lo scorso 4 febbraio, in occasione del 40mo anniversario della morte prematura (rimase fulminato da una polmonite alla vigilia della sua nomina a oyabun, “padrino” della Yamaguchi-gumi, la cosca più numerosa e potente dell’arcipelago) di Kenichi Yamamoto, si sono dati appuntamento i capi delle più importanti cosche yakuza, compreso il boss dei boss, Shinobu Tsukasa (noto anche sotto il nome di Keinichi Shinoda) famoso per il suo coraggio (si è fatto sei anni di carcere autoaccusandosi di un reato commesso da un suo sottoposto), per la sua umiltà (viaggia sempre in treno, con un paio di uomini di scorta) ma anche per la sua inflessibilità: pare che nel corso della sua brillante carriera abbia personalmente eliminato alcuni “traditori”. Reati per i quali tuttavia non è mai stato né indagato né tanto meno condannato. 


Le “gesta” della yakuza, che ancora oggi conta circa 50 mila “addetti” a tempo pieno (membri registrati e formalmente dipendenti delle società gestite dalle varie cosche) e le cui attività sono oramai per la maggior parte “legali” (settore immobiliare, spettacolo e intrattenimento, oltre naturalmente al bakuchi, il variegato mondo delle scommesse più o meno clandestine) vengono regolarmente riportate sui media giapponesi, in particolare tabloid e settimanali come Shukan Taishu, Asahi Geino e soprattutto Shukan Jitsuwa. Ed è proprio quest’ultimo settimanale, che pubblica regolarmente una sorta di “notiziario” (chi entra e chi esce di prigione, scioglimentonascita di nuove “famiglie”, e perfino i tassi correnti applicati dai tremendi, quanto socialmente indispensabili, usurai locali, i cosiddetti sarakin) che la scorsa settimana ha dedicato un vero e proprio speciale sull’impatto della pandemia sul business dell’onorata società. 


«Gli affari vanno malissimo – si lamenta un dirigente della Inoue Kai, una “famiglia” che di recente ha provocato una improvvisa quanto “dolorosa” (è la parola usata dal settimanale…) scissione all’interno della banda Yamaguchi – molti locali hanno chiuso e dunque non possono pagare il kaihin (letteralmente, “quota associativa”, uno dei locali eufemismi per indicare il “pizzo”), ma è soprattutto il morale che è giù: questa cosa che non ci si può frequentare, organizzare incontri ed eventi vari sta incidendo fortemente sul nostro umore.

Noi siamo abituati a stare e lavorare sempre in gruppo, l’isolamento non fa per noi».

<HS9>Secondo il settimanale, che conta su fonti interne, le varie cosche hanno imposto ai loro affiliati – che spesso sono veri e propri dipendenti, con tanto di stipendio, assicurazione e contributi vari – regole ancor più stringenti di quelle “suggerite” dal governo. «Ci hanno vietato di uscire la sera dopo le 20, di consumare alcol e perfino di giocare ai dadi o a hanafuda (gioco di carte locale). Possiamo solo scommettere on line, ai cavalli o alle corse di bici e motoscafi. Una noia pazzesca” si lamenta un altro intervistato, tale Yanae. Particolarmente rigorose (ed efficaci) le regole imposte per individuare e isolare gli eventuali “positivi”. In un Paese dove i tamponi “ufficiali” si fanno con il contagocce (in media 20 mila al giorno, con punte di 50 mila nei momenti di massimi contagi) e dove farlo privatamente è ancora complicato e soprattutto costoso (quelli “volontari” costano oltre 200 euro, ed il risultato non viene inserito ufficialmente nel data base governativo), le varie bande si sono organizzate per garantire test molecolari e assistenza domiciliare per chi si ammala. «Abbiamo la nostra rete – assicura un oyabun - non vogliamo pesare sul sistema sanitario nazionale».

Ma il “senso di responsabilità sociale”, come lo definisce la rivista, non si ferma qui. La yakuza, nonostante negli ultimi anni abbia profondamente diversificato i suoi “interessi”, mantiene uno stretto legame con il territorio e soprattutto con gli esercenti che pagano i loro “contributi”. Un legame l’ha portata a organizzare aiuti concreti in occasione delle recenti calamità naturali (terremoto del ’95 a Kobe, lo tsunami del 2011 nel Tohoku) e che oggi si è tradotta non solo nel sospendere – in alcuni casi - l’esazione del pizzo, ma addirittura all’erogazione di veri e propri indennizzi agli esercenti in difficoltà, quelli che per qualche motivo non sono riusciti ad ottenere i ristori ufficiali del governo. «Abbiamo uffici appositi che gestiscono la situazione – assicura uno dei boss intervistati – facciamo le nostre verifiche e se la domanda è giustificata interveniamo». Paese che vai, mafia che trovi. 

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