Francesco Grillo
Francesco Grillo

La sfida tecnologica/ I produttori di futuro e l’Europa tra gli esclusi

di Francesco Grillo
5 Minuti di Lettura
Martedì 22 Giugno 2021, 00:10

Sono passati solo vent’anni e – senza quasi accorgersene – all’Europa sembra essere scappato di mano il futuro. Nel 2001 il capitalismo americano si stava leccando le ferite che aveva lasciato il crollo della prima grande ondata di imprese internet (le “dot. com”). I mercati finanziari avevano bruciato 5.000 miliardi di dollari e una azienda appena quotata in borsa, Amazon, era arrivata vicina al fallimento.

Lo scandalo Enron proiettava un’ombra sinistra sulla stessa affidabilità dei bilanci delle società quotate negli Stati Uniti, mentre un gruppo di terroristi misteriosi si allenava, in quegli stessi mesi, all’idea di colpire il “centro del commercio mondiale” a New York. L’Europa che aveva da poco adottato l’euro sembrava sul punto di poter superare l’America grazie ad una maggiore solidità. Vent’anni dopo, Amazon vale da sola tre volte di più di tutte le aziende quotate in Italia messe insieme e tra le prime 50 imprese del mondo (per valore di mercato) ce ne sono solo tre europee; tra le prime venti a fare concorrenza agli americani sono rimasti solo le multinazionali di un Paese – la Cina - nel quale vent’anni fa meno del 5% della popolazione aveva un conto corrente. 

Qualcuno sostiene che non necessariamente sia un problema la scomparsa dell’Europa dallo scontro tra i giganti che dominano la globalizzazione. In fondo, sono medie e piccole le imprese che animavano i distretti italiani che venivano studiati con ammirazione ad Harvard all’inizio degli anni Novanta. E sono piccole aziende nate dai laboratori delle università quelle che hanno prodotto le innovazioni più “distruttive”. C’è, tuttavia, un dato ancora più interessante che fa notare il settimanale The Economist: delle 142 imprese che oggi valgono più di 100 miliardi di dollari, poco meno di un terzo (43) sono state fondate negli ultimi cinquant’anni. Di queste 27 sono americane, 10 cinesi e solo 1 europea (la tedesca Sap che però fa 50 anni l’anno prossimo uscendo dalla lista). Se ci spostiamo a considerare i cosiddetti “unicorni” (le imprese non quotate con una forte vocazione tecnologica ed un valore superiore a un miliardo di dollari), quelle europee sono 28 su circa 500 (233 sono americane e 227 cinesi).

Ci sta sfuggendo di mano il futuro e l’Europa è già uscita da molte delle battaglie che decideranno di chi sarà il ventunesimo secolo: non è europea, una sola azienda di commercio elettronico globale (come Amazon o Alibaba), una sola piattaforma per lo scambio di informazioni personali (come Whatsapp o Wechat); non sono europei i grandi produttori di telefoni intelligenti; e non lo sono i motori di ricerca che usiamo per navigare la rete e nessuno degli assemblatori di circuiti integrati (“chip”) che danno intelligenza ai computer. 
Dovrebbe essere questa la preoccupazione maggiore di chiunque voglia davvero occuparsi di come far sopravvivere al nuovo secolo, il più visionario dei progetti politici che il secolo scorso ha espresso.

Deve essere questa la priorità perché l’Europa sta perdendo non solo una battaglia economica, ma quella del controllo di tecnologie che sono indispensabili per accedere, elaborare e trasmettere informazione. Battaglia decisiva perché all’informazione è da sempre legato il potere e il nostro continente dà la sensazione di scivolare gentilmente verso l’irrilevanza.

Verso un futuro da consumatore e non più da produttore di futuro. È di questo che nei giorni scorsi si è parlato in una conferenza sul futuro dell’Europa che si è tenuta a Taormina e alla quale hanno partecipato, tra gli altri, Romano Prodi, i ministri Enrico Giovannini e Cristina Messa, il vice Direttore Generale di Unesco, Stefania Giannini.

Rientrare nella partita per la leadership digitale mondiale comporta, però, tre scelte nette.
Va completato un unico mercato europeo e incoraggiata la competizione interna che, anche in Cina, fu essenziale per far emergere imprese sufficientemente grandi da raggiungere le economie di scala minime per investire in ricerca tanto quanto fa Tesla sulle batterie elettriche o Huawei nella rete 5G. Non può, d’altra parte, essere un tabù accompagnare, pragmaticamente e in alcuni casi, l’aumento forte della competizione interna con una maggiore protezione rispetto a presenze esterne che, in questo momento, hanno una posizione così dominante (succede con Facebook) da non lasciare materialmente spazio all’emersione di alternative europee. In secondo luogo, è fondamentale una domanda pubblica finalizzata a risolvere problemi specifici che riguardano tutti. Una straordinaria spinta a arrivare al vaccino negli Stati Uniti e a perfezionare un sofisticato sistema di controllo diffuso del contagio in diversi Paesi asiatici, ha fatto da detonatore di processi di innovazione il cui effetto si propagherà a molte altre applicazioni e servizi.

Infine, è evidente che la sfida richiede un’Unione capace di scegliere, di maggiore velocità ed efficienza. Persino di riconoscere e proteggere i propri interessi. Essere costretti a poggiare ragioni che hanno a che fare con la sopravvivenza e indipendenza della nostra economia, su basi legali tanto eleganti per quanto fragili (come succede con le proposte che cercano di regolare i mercati digitali) da negoziare con 27 Paesi e tre istituzioni (Commissione, Parlamento e Consiglio) equivale a voler fermare i giganti, armati di un temperino. 

Nel 2000 scambiammo la caduta delle prime imprese dell’era internet con una delle tante morti annunciate di un modello fondato su capitale e idee. In realtà quello fu solo un momento “distruttivo” che ciascun processo innovativo comporta. Il problema di quest’Europa è proprio quello di non aver ancora compreso fino in fondo che per sopravvivere ogni progetto va rinnovato profondamente.
www.thinktank.vision

© RIPRODUZIONE RISERVATA