Marco Simoni

I tempi per il Piano/ La corsa in salita frenata dalla burocrazia

di Marco Simoni
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Mercoledì 13 Gennaio 2021, 00:10

L’aveva detto a chiare lettere il presidente Gentiloni alla fine dell’anno: le risorse del Recovery Fund vanno impegnate entro il 2023 e spese entro il 2026 altrimenti saranno perdute. Queste due date sono il vero convitato di pietra di queste settimane, durante le quali tante discussioni sono (giustamente) concentrate sui temi e sui progetti che devono caratterizzare il piano italiano di ripresa e resilienza, ma non sui modi.

Economia circolare, infrastrutture materiali e immateriali (scuola e ricerca), sanità: chi può essere in disaccordo con questi obiettivi. Per chi vive di polemiche sui social non mancherà un progetto che fa storcere il naso, ed è anche ragionevole aspettarsi qualche errore: capiterà in tutti i Paesi; chi fa, sbaglia. Il punto vero è dunque questo: fare.

Un saggio della Banca d’Italia del 2019 (Occasional Paper n. 520 di Busetti e altri) ci dice infatti quale è il drammatico punto di partenza dell’Italia in questo sforzo: il tempo medio di completamento delle opere pubbliche sopra i 50 milioni di euro (dunque la stragrande maggioranza dei progetti del Recovery) è di quasi 14 anni: quattordici anni di cui quasi sei per la progettazione, due per l’affidamento dei lavori, e il resto per la costruzione materiale dell’opera. In altre parole, se non si mettono in campo procedure nuove, queste risorse aggiuntive resteranno una chimera.

Si sente spesso dire: bisogna impegnare il Recovery Fund per investimenti e riforme, ma questa seconda parola viene raramente declinata: quali riforme? Un suggerimento viene proprio dai terrificanti dati riportati sopra. Se infatti da un lato sono necessarie procedure straordinarie per impegnare le risorse straordinarie, allo stesso tempo dobbiamo insistere perché si arrivi anche a cambiare il regime ordinario perché mai più siano necessari tre lustri per opere pubbliche che poi sono già vecchie quando terminate. L’obiettivo allora non deve essere solo quello di spendere le risorse aggiuntive, ma approfittare di questa necessità per identificare procedure che siano in grado di transitarci verso l’ordinarietà.

In passato sono arrivate molte critiche nei confronti dei regimi speciali di tanto in tanto adottati dai governi per completare alcune opere considerate urgenti.

Alcune critiche hanno riguardato il fatto che procedure speciali possano favorire fenomeni corruttivi. Altre si sono focalizzate sull’aumento dell’incertezza e della confusione che deriva dall’avere regimi multipli in opera allo stesso tempo in un Paese. Sono critiche legittime e spesso motivate, a cui bisogna aggiungerne una terza: se ogni volta è necessario trovare una scorciatoia, questo è segno che la strada normale è interrotta o comunque non ben manutenuta.

Dunque questa è una occasione da non perdere non solo per il salto di qualità che il Recovery Fund può far fare alla infrastrutturazione del nostro Paese – nel senso più ampio del termine – con la ricaduta economica che comporta. E’ una imperdibile occasione anche per identificare nuove procedure – sicure dal punto di vista delle garanzie ed efficaci dal punto di vista dei tempi – che possano successivamente entrare a far parte della nostra normalità. 

La rapidità della esecuzione, infatti, come ricorda sempre la Banca d’Italia, serve anche a garantire che gli investimenti pubblici abbiano veri e forti impatti macroeconomici. In altre parole: l’effetto crescita degli investimenti pubblici dipende in maniera cruciale dalla loro rapidità. Ricordiamoci che l’Italia soffre di crescita asfittica da ormai due decenni: la necessità di maggiore tempestività non è dunque un capriccio efficientista, ma una condizione perché gli investimenti possano dipanare gli effetti positivi che desideriamo.

In altre parole, vorremmo una Italia sicuramente più verde, più digitale e più giusta; per questo la desideriamo anche più efficiente, efficace e meno burocratica: sempre, specialmente nei tempi normali. 

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