Nonostante il pressing europeo, delle soluzioni per uscire da Quota 100 se ne parlerà probabilmente in autunno in occasione della legge di Bilancio. Viste alcune imminenti modifiche settoriali in funzione dello sblocco dei licenziamenti, vale però la pena di cominciare a parlarne ora, ancorché sarebbe stato meglio conoscere oggi le regole per il prossimo anno. Va detto subito che la prossima revisione, sia di Quota 100 sia di alcune parti della legge Fornero, dovrebbe garantire almeno per i prossimi dieci anni una “pace pensionistica”, una certezza delle regole senza ulteriori modifiche risolvendo almeno le due questioni principali. Primo: garantire un minimo di flessibilità in uscita dal mercato del lavoro anche in vista della inevitabile fase di ristrutturazioni aziendali post Covid. Secondo: consentire ai giovani, i contributivi puri che hanno iniziato a lavorare dopo il 31/12/1995, di avere le stesse regole e gli stessi requisiti di accesso alla pensione degli altri lavoratori, comprese le prestazioni di integrazione al trattamento minimo evitando la non condivisibile soluzione della cosiddetta “pensione di garanzia”.
È però il primo punto che qui preme chiarire, cioè l’uscita flessibile verso la pensione introdotta con la legge Dini del 1995 accanto al metodo di calcolo contributivo, progettato proprio per garantire questa flessibilità: chi esce prima avrà una pensione più bassa perché ne beneficerà per più anni, viceversa chi esce con età maggiori percepirà prestazioni più elevate perché ne beneficerà per meno anni in quanto la pensione è calcolata sia in base ai contributi versati sia all’aspettativa di vita al momento del pensionamento.
Per contratti di espansione e fondi esubero l’anticipo è di 5 anni rispetto ai requisiti di pensionamento standard, quindi già oggi si può accedere a questa forma di “prepensionamento” con 37 anni e 10 mesi per i maschi e 36 anni e 10 mesi per le donne indipendentemente dall’età anagrafica: quindi, con 60 anni, una quota 97/98 oppure, con 62 anni di età e 20 di contributi, una quota 82; in media, dunque, con quota 97/100 e con una soglia ancora più bassa con l’isopensione.
Si può però prevedere anche qualche ulteriore forma di flessibilità tipo Quota 102 (64 anni di età con 38 di contributi di cui almeno 36 effettivi) ma non certo i 62 anni con 20 di contribuzione a carico dello Stato o un profluvio di misure come Ape Sociale o lavori gravosi che creano pesanti squilibri nei conti pubblici e debiti a carico delle giovani generazioni.
Molto spesso i lavoratori sono più preparati dei loro rappresentanti politici e sindacali: ricordate il Tfr in busta paga? Alla proposta non aderì nessuno. Quota 100 ha avuto poco successo perché il 90% dei potenziali pensionati ha la prestazione calcolata per almeno il 65% con il metodo di calcolo contributivo; a 62 anni significa una riduzione permanente del 10%, per cui chi può resta almeno fino ai 64/65 anni. Se lavorando si guadagna 100, con la pensione a 67 anni e 37 di contributi si ottiene circa il 73% mentre con Quota 100 a 62 anni non si va oltre il 63%.
Come si vede, indipendentemente dalla scadenza di Quota 100 ci sono già oggi molte possibilità di uscita anticipata; un maggior utilizzo dei fondi bilaterali alimentati già oggi da una contribuzione intorno allo 0,32% della retribuzione lorda (un terzo a carico dei lavoratori) più altre contribuzioni già fissate dai contratti collettivi, risolverebbe le necessità delle imprese di ristrutturazione dei processi produttivi e garantirebbe, dopo la fine del blocco dei licenziamenti, un “paracadute” per i lavoratori non più reimpiegabili assorbendo le causali ex Ape Sociale e garantendo a 67 anni una pensione decorosa senza costi per la collettività anzi restituendo il beneficio ricevuto con almeno 2 giorni di lavori socialmente utili.