Vittorio Emanuele Parsi
Vittorio Emanuele Parsi

Spari nelle piazze/ Il caos Kazakistan e la finta stabilità dei Paesi autoritari

di Vittorio Emanuele Parsi
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Venerdì 7 Gennaio 2022, 00:24

Neanche il tempo di riflettere sul primo. anniversario dei drammatici fatti di Capitol Hill e sulla malferma salute della democrazia americana che dal Kazakistan arrivavano le notizie di massicce dimostrazioni di piazza degenerate in aperta rivolta, con l’inevitabile corollario di decine (per ora) di vittime. Nella giornata di ieri le truppe russe sono arrivate ad Alma Aty – a seguito della richiesta del presidente kazako Kassim-Jomart Tokayev, indirizzata alla Csto (Collective Security Treaty Organization), l’alleanza regionale che raccoglie intorno a Mosca il Kazakistan, appunto, l’Armenia, la Bielorussia, il Tajikistan e il Kirghizistan. Gli anni in cui il Kazakistan, più che flirtare con gli Stati Uniti e l’Unione Europea, cercava una sua posizione maggiormente autonoma tra Russia e Cina nell’ambito della Shanghai Treaty Organization costituiscono ormai un ricordo lontano. Intendiamoci, Nur-Sultan (il nome assunto dalla neo-capitale kazaka Astana dopo il 2019) continua a mantenere ottime relazioni con Mosca e Pechino e il Kazakistan rappresenta sempre uno snodo centrale del progetto della “nuova via della seta” cinese ma, in concomitanza con il consolidarsi del nuovo protagonismo internazionale di Putin, è sempre più allineato con la Russia. Lo spazio politico-militare post-sovietico si va lentamente ricomponendo e, con molta franchezza, sono le leadership delle ex repubbliche dell’Urss che reclamano la “fraterna assistenza” di Mosca: non più in nome dell’internazionalismo socialista o della lotta anti-imperialista, ma contro le “minacce provenienti dall’esterno” e per la sempiterna “lotta al terrorismo”, scusa buona per tutte le stagioni e per ogni regime.


Resta il fatto che la politica di potenza del Cremlino, la riedizione di una visione ottocentesca delle relazioni internazionali che l’entourage di Putin cerca di rivestire di novità, cela malamente che il ricorrente uso della forza non fa che attestare lo stato di fragilità endemica del sistema internazionale e delle sue singole componenti: comprese quelle autoritarie. I regimi contemporanei sono tutti in grande difficoltà. La manifestano con modalità e intensità diverse: le democrazie, principalmente, attraverso il voto per le forze populiste e sovraniste; i regimi autoritari con moti di piazza cui segue immancabile la repressione e, talvolta, l’intervento militare esterno. Ma, come l’assalto al Campidoglio di Washington di un anno fa ci ricorda, anche i sistemi democratici sono agitati da profonde sfide delegittimanti. E il perdurare della pandemia, con la crescente fatica delle autorità governative a capire come contrastarla, lascia prevedere un periodo anche più difficile. 
La ragione scatenante dei tumulti kazaki, è stata l’aumento del prezzo del GPL – ovvero la cessazione del suo prezzo calmierato e sovvenzionato.

La fine del suo prezzo “politico”, come si sarebbe detto correttamente una volta, ha lasciato scatenare il paradosso di un’impennata del prezzo del carburante in un Paese che è tra i maggiori produttori di petrolio: in gran parte destinato all’esportazione e, sul mercato interno, assorbito in maniera esorbitante e crescente dalle “miniere” di bitcoin, veri e propri mostri energivori.

Il Kazakistan è infatti una sorta di paradiso fiscale per i produttori di criptovalute, che si sono spostati a frotte verso la repubblica centroasiatica, e rappresenta la seconda location mondiale per la fabbricazione di bitcoin dopo gli Stati Uniti. Le ragioni strutturali del malcontento sono però più profonde e riguardano sia la dimensione locale sia quella globale. La prima deriva dalla natura familistica e corrotta del regime politico, di fatto nelle mani del clan di Nazarbayev sin dall’indipendenza. La seconda ha a che fare invece con le tensioni e torsioni crescenti cui l’iperglobalizzazione sta sottoponendo qualunque regime politico, autoritario o democratico che sia. Se i regimi autoritari sembrano (ingannevolmente) più solidi è solo perché possono ricorrere più a lungo e profondamente alla repressione – salvo poi implodere “improvvisamente” – e perché la spartizione della torta tra oligarchie dispotiche nazionali e grandi attori economici internazionali avviene “al riparo” di quel minimo di trasparenza e dibattito pubblico che ancora resiste nelle democrazie.

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