Piero Mei
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Schema vincente/ Il sogno cercato per 53 anni

di Piero Mei
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Lunedì 12 Luglio 2021, 01:11 - Ultimo aggiornamento: 01:19

Donnarumma! Ne para due e l’Italia è campione d’Europa. Dolci rigori. Strappacuore. E’ ancora l’11 luglio come nell’82 mundial. Mattarella in tribuna ieri, allora Pertini. Chi ha sbagliato il suo non importa niente. L’Italia cui nessuno o quasi credeva, però Mancini sì più veggente che visionario, è per la seconda volta campione d’Europa, “it’s coming Rome” per dirla con gli inglesi. Ha vinto il merito, ha vinto il futuro, perché un’Italia così ha dalla sua il presente, ha dalla sua il futuro. 

Donnarumma! E tutto il resto è tanto. Pure se l’avvio era stato da brivido. Nemmeno il tempo di ritrovare il senso dell’udito dopo l’assordante “Dio salvi la Regina” che si sarà sentito fin da Wimbledon, e gli inglesi segnavano il gol e mettevano sulla carrozza di Sua Maestà la coppa. Dopo due minuti o poco su di lì, i “Tre Leoni” diventavano un assembramento di difensori, da inventori del calcio in mutazione “catenacciara”. Lo schema, se ce n’era uno, e ce n’era, risultava quello di non lasciare una via d’accesso agli azzurri, neanche un vicoletto. E allora Mancini, il cittì della rinascita che ha l’aria di allungarsi in Rinascimento, metteva mano al cambio quando il tempo, che se sei avanti non passa mai, cominciava a fare quel che fa quando sei indietro: passava svelto. Mancini chiamava Cristante e Berardi per Barella e Immobile, diventava l’Italia dei piccoli, che si rivelava un’Italia dei grandi, come l’avevamo vista, seguita, amata, sognata nel corso di questo scombiccherato campionato d’Europa che in realtà è stato, nonostante tutto, perfino quel rigore di promozione inglese, regolare, giacché in finale sono arrivati i migliori.

C’era l’arrembaggio contro l’assembramento, l’attacco contro la difesa. I piccoli portavano scompiglio, Bonucci scardinava lo sportello della real carrozza e segnava il gol che riportava la coppa in ballo.

E questa era l’Italia che riconoscevamo, l’Italia di Mancini e della Next Generation. Era suo il campo, come spesso in questo Europeo che ci ha fornito una nuova versione della Nazionale, che una partita per volta ha guadagnato la credibilità tecnica della competenza (siamo tutti cittì o no?) e il cuore di chi a cittì non s’atteggia ma italiano si sente e niente più ce lo fa sentire di una maglia azzurra (o di un’auto rossa): è lo sport, bellezza. E quasi certamente c’è una Grande Bellezza, ma non in quel senso deteriore, nel futuro di questa Italia. Una semina che porterà i suoi frutti. Un segnale che nello “stadio più stadio” dice di “andare avanti così”. Quello che si chiedeva a questa Squadra, a questo Gruppo, era di andare avanti non da “furbetti” ma da campioni, da italiani nuovi che sanno sì il passato ma stanno costruendo il futuro. In campo e fuori di lì. E’ stata una grande “didattica a distanza”, calcistica e no, che ci è venuta dall’Olimpico, dove tutto cominciò, a Wembley, dove tutto finì. Era entrato anche Bernardeschi per l’infortunato Chiesa, un deus ex machina dell’Europeo. L’altro, Spinazzola, soffriva tifoso. Lì, a Wembley, per la mezz’ora in più dei supplementari, Mancini disegnava un’altra Italia ancora: rieccola con il “nueve”, Belotti per Insigne. L’Italia cangiante, che non s’adatta al gioco altrui, ma al proprio. Poi Locatelli per Verratti. Southgate, il Mancini loro, avanzava la sua truppa e l’appuntiva pure, chiamando alla bisogna Grealish, che gli inglesi hanno battezzati il nuovo Gazza, cioè Gascoigne.

Gli azzurri parevano alle corde. Mancavano due minuti: erano per Florenzi- Un minuto per i rigoristi inglesi, Rushford e Sancho, più un recupero da altri tre. Niente gol, solo rigori, di nuovo rigori, amati e odiati rigori. Amatissimi questa notte da non dimenticare.

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