Vittorio Emanuele Parsi
Vittorio Emanuele Parsi

Oltre Hong Kong/ Il pugno duro della Cina e i vantaggi per Trump

di Vittorio Emanuele Parsi
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Venerdì 29 Maggio 2020, 00:00
Forse qualcuno ricorderà che, al suo esordio, una dichiarazione del neopresidente Donald Trump sul possibile cambio di atteggiamento della sua amministrazione rispetto alla cosiddetta One China policy mise in fibrillazione le relazioni tra Washington e Pechino, prima che la guerra dei dazi aprisse un nuovo e diverso capitolo. Sembrano passati anni da allora e in un certo senso la nostra sensazione è corretta, perché la pandemia ha effettivamente scavato un vallo tra il prima e il dopo nelle nostre vite. 

D'altronde, non possiamo non constatare come esistono temi che appartenevano alla fisiologia della politica internazionale come l'abbiamo sempre concepita che tendono a riemergere, a riproporsi. Lo abbiamo visto in Medio Oriente nei giorni scorsi con il riacutizzarsi della tensione tra Iran ed Israele. O anche in Libia, con il riaccendersi delle dinamiche tra le fazioni in lotta e tra i loro sponsor. 

Ma lo vediamo, e in misura molto più preoccupante, nella polemica tra Cina e Stati Uniti. Certo, i rapporti sino-americani sono stati e continuano ad essere pesantemente influenzati dalle conseguenze di Covid-19. Basta osservare come il governo di Pechino stia conducendo un'intensa e massiccia compagna di riposizionamento della Cina da primo, e troppo a lungo reticente, polo di diffusione del virus.

Un riposizionamento a primo Paese che ha sconfitto il coronavirus e che dispensa generosamente aiuti agli altri. Un tentativo talvolta goffo, occorre sottolinearlo, al quale ovviamente gli Stati Uniti cercano di replicare, cogliendone tutto il potenziale sottilmente corrosivo per il ruolo di leadership fin qui esercitato da Washington. 

E che ci riescano tutto sommato piuttosto bene, nonostante le tante gaffes di Donald Trump e gli oggettivi limiti della sua presidenza, ci suggerisce che la nostra sensazione che Pechino non si stia muovendo con la consueta consumata abilità non è destituita di fondamento.
Pechino è in difficoltà, questo è evidente. Ma non lo è solo nella gestione politica delle sue oggettive responsabilità sulla diffusione accidentale del Covid-19. Lo è anche nello sfruttamento delle posizioni di influenza e potere costruite pazientemente all'interno delle istituzioni internazionali: lo scandalo degli inappropriati condizionamenti che l'Organizzazione mondiale della Sanità avrebbe subito dalle autorità cinesi non è per nulla destinato ad esaurirsi
In particolare, sta mettendo in luce come la tesi della crescita armoniosa (e quindi intrinsecamente non inquietante e destabilizzante) della potenza cinese contenga molta più teoria che realtà. Un fatto, quest'ultimo, che pone più di un interrogativo su quale sarebbe l'assetto dell'ordine internazionale in un mondo a guida cinese o anche solamente non più a leadership americana.

Se ne ha una plastica e drammatica rappresentazione nelle modalità con cui Pechino ha ripreso in mano la questione di Hong Kong, con un'accelerazione della spinta ad annullare le restanti franchigie di cui l'ex colonia britannica ancora gode. Occorre osservare che si tratta di un assalto alle libertà politiche e civili dell'isola, perché il suo allineamento internazionale rispetto alla madrepatria continentale non è mai stato messo in discussione neppure dalle frange più radicali delle opposizioni locali. 

È in gioco la misura della tolleranza per il dissenso e la diversità che il Partito comunista cinese e il presidente Xi sono in grado di tollerare a loro volta, prima di far scattare il riflesso repressivo. Non è minacciata la sovranità di Pechino. 

L'evocazione della sovranità come tema polemico forte da parte di Pechino è una pura misura di distrazione analoga a quelle contromisure elettroniche che navi ed aerei attivano quando sono inquadrate dal radar di missili ostili. Nessuno al mondo appoggerebbe mai l'indipendenza di Hong Kong. Qui non è neppure in discussione la One China policy della quale parlavamo in apertura, che semmai riguarda Taiwan e la pretesa cinese di ricongiungerla alla Cina continentale. 

Pechino si muove sulla questione di Hong Kong come se nulla fosse successo negli ultimi cinque mesi, come se la sua leadership non fosse molto più debole di cinque mesi fa, come se le perplessità internazionali di quanto acciaio celi il guanto di velluto cinese non fossero oggi così diffuse e profonde. Da un lato la Cina sembra convinta di potersi muovere senza le cautele che prima osservava (in questo probabilmente percependo e forse sopravvalutando le difficoltà americane). 

Dall'altro Pechino appare spinta da inconfessabili timori sulla tenuta del suo sistema politico, a fronte di un rallentamento epocale della crescita economica. Potrebbe uscirne una politica estera cinese meno avversa al rischio di quella che abbiamo conosciuto negli ultimi quarant'anni. Un preoccupante segnale in un mondo dalle istituzioni internazionali sotto accusa o in crisi e con un leader, gli Stati Uniti, che entro novembre si appresta ad affrontare analoghe eppure diverse sfide domestiche ed internazionali. 
 
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