Luca Bianchi
Luca Bianchi

Il Paese diviso/ I progetti da attuare per ridurre i divari

di Luca Bianchi
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Venerdì 30 Luglio 2021, 00:10

 Le previsioni sull’andamento dell’economia nelle regioni italiane nel 2021-22 diffuse ieri dalla Svimez parlano di una ripartenza post-Covid diseguale tra territori. Il Paese che si era unito nella crisi, scoprendo le sue debolezze anche là dove pensava di essere più forte, rischia di dividersi nuovamente nella ripresa. Saranno soprattutto l’export e gli investimenti a guidare il rimbalzo del Paese determinando un effetto propulsivo maggiore nelle regioni del Centro-Nord. Il Nord, grazie ad una struttura produttiva più reattiva nelle riprese, recupererà già nel 2022 i 9,1 punti di Pil persi nel 2020. Al Sud ne mancheranno ancora 1,7 degli 8,2 persi nell’anno terribile del Covid, che si aggiungeranno ai circa 10 ancora non recuperati dalla lunga crisi del 2008-2013. 

Un Sud ancora alle prese, quindi, con una resistenza da completare, in ritardo sull’avvio della fase di resilienza per cause strutturali (le perdite non recuperate di capacità produttiva causate dalla crisi precedente; la minore apertura ai mercati internazionali) e congiunturali (la ripresa più debole degli investimenti produttivi). E nel biennio 2021-22 si acuirà la nuova “questione del Centro” sollevata dalla Svimez: un’area dalla quale Marche e Umbria sembrano staccarsi scivolando verso Sud. 

Un Paese che riparte “a pezzi” non è una buona notizia neanche per le regioni del Nord che meglio riescono ad agganciarsi al rimbalzo congiunturale. Perché rischia di replicarsi quanto già avvenuto nel decennio pre-Covid, quando lo sviluppo diseguale del Paese ne ha condizionato la crescita complessiva, indebolendo anche le cosiddette “locomotive” del Nord che non hanno tenuto il passo delle altre aree forti dell’Europa.

Le valutazioni della Svimez aprono però ad una prospettiva positiva che può far leva sulla profonda discontinuità osservabile nelle politiche pubbliche nazionali e, soprattutto, europee. Le previsioni richiamate infatti includono gli effetti dei provvedimenti di sostegno a imprese e famiglie introdotte in corso d’anno e degli interventi finanziati dal Pnrr attivabili fino a tutto il 2022, fornendo così una misura tangibile del contributo fornito dalla politica economica nazionale alla ripartenza. Tali interventi nel biennio 21-22 determineranno un impatto significativo sul Pil al Sud: 4,1 punti, superiore ai 3,7 punti del Centro-Nord. <HS9><HS9>È un segnale, questo, di una discontinuità molto pronunciata rispetto alla risposta alla scorsa crisi, quando l’austerità aveva affossato la ripresa anziché favorirla, e a soffrirne fu soprattutto il Sud, già più duramente colpito dalla crisi.

Un segnale, soprattutto, del giusto binario sul quale la politica nazionale si è già collocata per allinearsi alla condizionalità “buona” imposta dalla “nuova” Europa per accedere alle risorse del Next Generation Eu: condizionare la ripresa alla riduzione dei divari.

Che nel caso italiano diventa una raccomandazione che vale doppio perché la riduzione dei divari contribuisce alla crescita nazionale. Il differenziale di 0,4 punti di contributo delle politiche alla crescita stimato dalla Svimez a favore del Sud, tuttavia, non basterà a invertire la tendenza ad una ripartenza diseguale. 

Come irrobustire allora il contributo delle politiche per coniugare ripresa e riduzione dei divari? Resta un limite “strutturale” nella programmazione degli investimenti del Pnrr che impone necessari correttivi già in fase di primissima attuazione: la mancanza di una ricognizione puntuale dei fabbisogni di investimento sulla quale basare un’allocazione delle risorse aggiuntive stanziate dal Piano tarata su target territoriali e coerente con l’obiettivo di ridurre il divario di cittadinanza di chi vive e fa impresa al Sud. L’ormai arcinota quota del 40% destinata al Sud è il risultato di un esercizio di “territorializzazione” delle risorse per ciascuna delle sei missioni del Piano che poco informa sull’effettiva ricaduta degli interventi sui territori. Un esercizio poco trasparente in assenza di una definizione chiara di spesa “territorializzabile”. E che, soprattutto, restituisce un risultato solo virtuale perché Regioni ed Enti locali saranno responsabili della realizzazione di una quota significativa degli investimenti (circa 88 miliardi nel complesso) che il Piano prevede di distribuire “a bando”, ovvero attraverso procedure selettive tra amministrazioni beneficiarie.

<HS9>Invertire la tendenza all’ampliamento dei divari richiede dunque uno sforzo aggiuntivo che non riguarda la richiesta di nuove risorse o maggiori quote ma precostituire le condizioni attuative per passare dagli stanziamenti alla spesa effettiva, al fine di assicurare che gli interventi programmati producano ricadute effettive nei territori a maggior fabbisogno. La minore capacità progettuale delle amministrazioni meridionali le espone ad un elevato rischio di mancato assorbimento, con il paradosso che le realtà a maggior fabbisogno potrebbero beneficiare di risorse insufficienti. Se si vuole scongiurare questo rischio, bisognerebbe rafforzare il supporto alla progettualità di questi enti. 

In questo senso va la proposta di costituire centri di competenza territoriale, formati da specialisti nella progettazione e attuazione delle politiche di sviluppo, anche in raccordo con le Università presenti nel territorio, in grado di supportare le amministrazioni locali, e in particolare i Comuni. Solo dalle soluzioni di tali nodi attuativi possono derivare concrete prospettive di avviare un percorso di ricostruzione del Paese più equilibrato e dunque anche più solido. 

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