Alessandro Campi
Alessandro Campi

L'Europa ci guarda/ Il futuro del Paese, una battaglia di tutti

di Alessandro Campi
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Martedì 27 Aprile 2021, 00:08

Mafia, spaghetti, sole, mandolino, mare, pizza, Paolo Rossi, Machiavelli, la mamma e la famiglia… Sono stereotipi, d’accordo, ma proprio perché tali sono in parte fondati, in parte fasulli. Questi sono quelli tipici e ricorrenti sugli italiani degli europei. Poi ci sono quelli degli italiani sugli europei, mezzi veri e mezzi falsi anch’essi. Sul continente viviamo di pregiudizi reciproci – alcuni innocenti, altri odiosi – da almeno tre-quattro secoli, da quando sono nate le tante nazioni divenute poi altrettanti Stati, uniti ma non troppo nell’Unione attuale. 

Gli stereotipi sono fondamentali per la nascita e il consolidamento dell’identità di gruppo: si dileggia l’altro per convincersi di essere migliori. Il gioco può diventare pericoloso, ma non lo è necessariamente: può anche risolversi in uno sfottò terapeutico e allegro. Senza farne una questione di superiorità razziale o culturale e con tutto il rispetto per la psicologia sociale che ci dice di non prendere sul serio i cliché antropologici collettivi, perché privarsi del piacere di pensare che i tedeschi mangiano sempre crauti, che i francesi si lavano poco, che gli inglesi sono sempre alticci, che gli spagnoli fanno lunghe sieste o che i lussemburghesi… ecco, sui lussemburghesi non viene mai in mente nulla, nemmeno di cattivo?

Insomma, inutile prendersela per quel “delinquent Italy” apparso l’altro giorno sul “Financial Times”, che peraltro voleva essere un mezzo complimento, anche se rivolto più a Draghi che finalmente governa gli italiani che agli italiani governati finalmente da Draghi. Decenni di inconcludenza e di ritardi della nostra malapolitica, questa la tesi, sarebbero stati colmati dall’arrivo a palazzo Chigi di un italiano serio: applauso e sospiro di sollievo da parte delle cancellerie europee e dei circoli economici influenti, quelli a cui il FT tradizionalmente dà voce. 

Riconosciamolo: c’è persino un po’ di verità in questa ricostruzione, secondo la quale da teppistelli di strada ci potremmo trasformare, grazie alle bacchettate sulle mani del maestro Draghi, in scolaretti disciplinati e modello. Il tono è paternalistico e forse anche un tantino offensivo, visto che stiamo parlando pur sempre dell’Italia, con la storia gloriosa che l’Italia ha, e non del… dannata miseria, viene sempre in mente il Lussemburgo! Ma c’è appunto un qualche fondamento in questo modo di presentare le cose.

L’europeismo italico, infatti, è stato spesso strumentale e troppo enfatico per essere pienamente credibile: compensativo per alcuni di un’identità nazionale debole, succedaneo per altri di un internazionalismo politico bocciato nel frattempo dalla storia. C’è poi la teoria, che ci siamo inventati noi italiani quando eravamo economicamente alla frutta, del “vincolo esterno”: l’Europa usata come forza disciplinatrice per fare riforme che da soli non avremmo mai fatto. In effetti non sempre abbiamo rispettato gli impegni presi con gli alleati e non sempre abbiamo mandato in Europa i nostri politici migliori. Nelle partite negoziali, che richiedono competenza e pazienza, abbiamo provato a supplire ora con la scaltrezza ora con l’aggressività, salvo poi mostrarci spesso degli arrendevoli questuanti. Sono colpe che nei consessi internazionali si pagano e che continuamente ci vengono rinfacciate, anche se in modo interessato e pretestuoso, a conferma che l’Europa non è solo un organismo cooperativo e solidale, ma anche una struttura competitiva, dove la difesa degli interessi nazionali fa spesso agio sullo spirito comunitario e sulle buone intenzioni dichiarate nei discorsi ufficiali. 

Ora in Italia c’è Draghi, rispettato ovunque e capace di farsi rispettare da chiunque, ma dopo? Questo un po’ il senso dell’articolo del FT, ma è la stessa domanda che in fondo ci facciamo noi italiani.

Il miracolismo politico legato ad una singola persona, lo dice l’esperienza, non funziona mai: cosa ne sarà allora dell’Italia tra cinque o vent’anni, quando non ci sarà più Draghi alla guida del governo e nemmeno potremo invocare, come abbiamo fatto troppo spesso nella nostra storia, anche quella recente, un nuovo (l’ennesimo) salvatore della patria? A leggere con attenzione il discorso che ha pronunciato ieri alla Camera, proprio questo è il tema che il Presidente del Consiglio ha voluto porre all’attenzione pubblica, senza che a dovercelo ricordare siano quelli che in Europa ci ammirano (per il clima, la moda e il cibo), ma non sempre ci vogliono politicamente bene. Faremo stavolta le cose sul serio?

Siamo impegnati in una partita, quella legata al Piano di rinascita e resilienza, che richiede uno sforzo collettivo. Sono in gioco – ha detto Draghi – il “destino del Paese” e il “suo ruolo nella comunità internazionale”, nonché “la sua credibilità e reputazione come fondatore dell’Unione europea e protagonista del mondo occidentale”. Da qui l’invito a guardare al bene della comunità nazionale, sacrificando gli interessi di parte, e a non considerare i programmi d’investimento che l’Europa finanzierà solo una questione di reddito, lavoro e benessere. Più importanti ancora sono i “valori civili” intorno ai quali si intende costruire l’Italia di domani. I partiti, specie quelli che ora lo sostengono, recepiranno nel modo giusto un simile messaggio?

L’eloquenza politica, si sa, include sempre un eccesso di enfasi retorica, ma il tornante che stiamo vivendo a causa della pandemia e dei suoi effetti ha un che di storico e decisivo, tale da giustificare simili toni accalorati, come l’appello finale del discorso allo “spirito repubblicano”. La credibilità, personale e collettiva, si fatica a conquistarla e ci vuole poco a dilapidarla. Quella dell’Italia è stata fluttuante, spesso per colpa propria, talvolta anche in modo immeritato: basti guardare al miope egoismo che ha mosso l’Europa sul tema dell’immigrazione mentre l’Italia è sempre stata in prima linea. Ma per quello che accadrà nel prossimo futuro non ci saranno più alibi autoassolutori o possibili recriminazioni verso gli altri: dipenderà dalla capacità degli italiani e da quella della loro classe politica e dirigente portare a compimento, senza sprechi e nei tempi programmati, gli investimenti, i progetti e le riforme (dalla giustizia alla pubblica amministrazione) che abbiamo liberamente concordato con l’Europa. Riuscire o fallire sarà stavolta una responsabilità collettiva. E se è vero che siamo purtroppo un Paese incline all’individualismo, allo spirito anarchico e al culto del “particolare”, è anche vero che gli stereotipi – come quello testé enunciato – servono proprio per essere smentiti.

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