Debito pubblico e longevità. Quando si pensa al Giappone, perlomeno sotto l’aspetto economico e politico, sono probabilmente questi i tratti più immediati e caratterizzanti che vengono in mente. In maniera anche sorprendente, vista la distanza geografica e culturale tra le due realtà, sono anche i due elementi che più rendono simili il Giappone e il nostro Paese. È forse anche per questo motivo che ricercatori, politici e più in generale tutta l’opinione pubblica in Italia sono sempre stati molto interessati a quello che accade in questa porzione dell’estremo oriente. Negli anni di Shinzo Abe, primo ministro giapponese tra il 2006 e il 2007 e ininterrottamente dal 2012 al 2020, è stato poi tutto il mondo a essere attratto e interessato a quanto accadeva in Giappone. Anche gli Stati Uniti, solitamente molto più abituati a celebrare se stessi e a diffondere nel mondo i loro modelli economici, politici e culturali, non furono da meno. A conferma di ciò, la creazione di un neologismo, “Abenomics”, per indicare le ricette economiche e politiche introdotte dall’allora Primo ministro per rivitalizzare l’economia del Paese, soprattutto negli anni del secondo e del terzo mandato (dal 2012 al 2017). All’arco del legislatore e del governo, Shinzo Abe pose le cosiddette “tre frecce”: politica fiscale, politica monetaria e riforme strutturali per la crescita. Per gli amanti delle etichette e della storia del pensiero economico, un mix di strumenti keynesiani e monetarismo, entrambi declinati nel terzo millennio.
Nel 2012 il Giappone arrivava da un lungo periodo di deflazione e scarsa fiducia nel futuro. Sembra quasi ironico scriverne ora, ma dieci anni fa il problema era che i prezzi non salivano abbastanza; un’indicazione, secondo le autorità giapponesi, di bassa propensione al consumo da parte dei cittadini e quindi di bassa capacità di crescita economica. Dosando una politica monetaria espansiva, realizzata anche attraverso la sostituzione del governatore della banca centrale nel 2013, nonché una generosa politica fiscale, composta principalmente da sussidi e finanziata in deficit, il governo giapponese tentò di rivitalizzare l’economia, con un buon successo nel breve periodo. La seconda ondata di “Abenomics” fu più orientata alle riforme scomode: dal punto di vista politico, si ricordano i tentativi di ridurre il potere della burocrazia, di eliminare la connivenza tra questa e il potere legislativo, di combattere il potere di mercato e le di rendite di posizione. Dal punto di vista economico, invece, il governo si concentrò sulla necessità di aumentare il tasso di fertilità e di rendere economicamente indipendenti gli anziani. Gradi similitudini, quindi, ma anche grandi differenze. Troppo ampie per far diventare l’“Abenomics” una ricetta anche per i problemi economici di oggi? Non è detto: del resto, la politica è anche l’arte di saper correggere e personalizzare le buone pratiche altrui. Cominciando dalle similitudini, e come già anticipato, le principali riguardano invecchiamento della popolazione ed elevato debito pubblico.
Tali posizioni, nemmeno a farlo apposta, trovano proprio nel Giappone un caso esemplare. Dopo il disastro di Fukushima del 2011, infatti, la produzione di energia nucleare fu progressivamente ridotta, riportando il Giappone a interrogarsi su come promuovere la propria autonomia energetica. E la risposta fu quella di ripartire proprio dal nucleare, anche se non più in maniera principale ed esclusiva. Al di là dei contenuti specifici delle riforme e degli strumenti di politica economica utilizzati, su cui è ovviamente lecito e utile discutere, è abbastanza chiaro che l’eredità di Shinzo Abe risiede proprio nella sua visione olistica dei fenomeni economici e politici e nel coraggio di perseguire le riforme necessarie, nonostante le ovvie e prevedibili resistenze delle categorie colpite. In Italia, quando è l’Europa che chiede alcune riforme, tanto il legislatore quanto gran parte dell’opinione pubblica si mostrano spesso uniti e seccati da questa ingerenza. E quando, al contrario, è lo stesso Governo a promuovere il cambiamento, sono le opposizioni che si sollevano, ove non sia la stessa maggioranza a dividersi. È probabilmente fuori luogo ricondurre l’omicidio di Shinzo Abe alla sua attività riformatrice; ma è indubbio che, seppur senza arrivare a risvolti così tragici, provare a cambiare la società porta a dei rischi, se non altro elettorali. Il cambiamento richiede coraggio, visione e stabilità. Doti che troppo spesso mancano alla classe dirigente.