Pio d'Emilia
Pio d'Emilia

Migranti, la linea dura di Tokyo che dimentica l’umanità: la morte di Gianluca Stafisso

Migranti, la linea dura di Tokyo che dimentica l umanità: la morte di Gianluca Stafisso
di Pio d'Emilia
4 Minuti di Lettura
Lunedì 21 Novembre 2022, 00:41 - Ultimo aggiornamento: 22 Novembre, 00:18

Quali che siano le motivazioni e le modalità in cui è avvenuto il suo suicidio, una cosa è certa. In un mondo normale, Gianluca Stafisso  non avrebbe dovuto trovarsi dove si trovava: in un centro di detenzione per immigrati clandestini di Tokyo


Negli ultimi anni ci era finito più volte: era rimasto senza permesso di soggiorno e mentre cercava disperatamente di riottenerne uno viveva sotto un ponte in periferia di Tokyo. Ogni tanto la polizia lo arrestava e lo portava nel centro di detenzione. Ma poi lo rilasciavano, e lui tornava sotto il suo ponte da dove ogni tanto mandava al mondo i suoi disperati video, che potete vedere sulla piattaforma Vimeo.


Non faceva male a nessuno, Gianluca, ma ne aveva fatto tanto a se stesso, da quando si era separato dalla moglie giapponese e cercava disperatamente di mantenere il diritto a risiedere in Giappone. Alla fine non ce l’ha fatta più e si è tolto la vita nella sua cella. Chi l’ha conosciuto, compreso il sottoscritto, ritiene che non doveva essere lì. 
Al di là delle varie vicissitudini in cui era stato coinvolto, era una persona chiaramente disturbata, al quale un medico chiamato dalla nostra ambasciata aveva a suo tempo diagnosticato uno stato avanzato di paranoia. Doveva essere stato già da tempo rimpatriato, o ricoverato in un ospedale, a curarsi, non in un centro di detenzione per immigrati clandestini. Che in Giappone – come purtroppo in molti altri Paesi – vengono considerati, e trattati, come criminali.


La vicenda del povero Gianluca ha riacceso i riflettori sul modo in cui il Giappone tratta gli stranieri che violano la legge sull’immigrazione, richiedenti asilo compresi. Non sono molti, poco più di un migliaio, distribuiti in 71 centri sparsi nel Paese. Ma il modo in cui vengono trattati ha di recente costretto Amnesty International a denunciarne gli aspetti più gravi. 


Del resto 18 morti, di cui sette suicidi dal 2017, anno a partire dal quale vengono forniti dati e statistiche certe, sono davvero tanti. «Se pensiamo alla giusta indignazione che il mondo ha provato qualche anno fa per la morte di Otto Warmbier, il giovane statunitense arrestato e condannato ai lavori forzati in Corea del Nord per aver rubato un manifesto – sostiene Shoichi Ibusuki, uno dei 160 avvocati che ha firmato un appello al governo affinché intervenga con una riforma del settore – mi sorprende che nei confronti di quello che succede qui non vi sia altrettanta indignazione.

Spero che dopo questa ennesima morte il mondo si accorga anche di quello che accade in Giappone».


Della drammatica situazione in cui versano i “detenuti” (che detenuti non dovrebbero essere…) in Giappone si è occupato di recente il regista Thomas Ash. Il suo documentario “Ushiku” (potete vedere qui il trailer), più volte premiato, mostra scene “rubate” con telecamere nascoste da far rabbrividire, ma che non hanno finora provocato alcuna reazione ufficiale, ne tanto meno condanne e punizioni, per i responsabili. 


«Il bello è che le scene più drammatiche contenute nel mio film – spiega il regista – tipo quella in cui si vedono sei guardie che schiacciano a terra un detenuto inerme, insultandolo e picchiandolo, sono scene girate dalle telecamere di sorveglianza, che i legali del detenuto sono riusciti a farsi consegnare a seguito della loro denuncia e che sono state mostrate in aula durante il processo. Sono testimonianze ineccepibili, che in un Paese civile dovrebbero portare all’immediata incriminazione delle guardie».

E invece niente. Lo scorso maggio, in un’aula del tribunale di Tokyo, i giudici hanno assolto le autorità del centro di detenzione di Shinagawa – lo stesso dove venerdì scorso si è suicidato il povero Gianluca, nonostante fosse stato acquisito un video in cui si vede un cittadino del Camerun chiedere per 6 ore di seguito aiuto. Quando le guardie hanno finalmente deciso di intervenire l’hanno trovato morto.


Lo stesso è successo nel dicembre 2021 ad un detenuto turco, che aveva iniziato lo sciopero della fame, e alla povera Wishma Sandamali, una cittadina dello Sri Lanka di 33 anni che per giorni aveva chiesto di essere visitata. Ha dovuto aspettare 4 giorni (nei centri di detenzione non c’è una guardia medica fissa: i medici fanno turni di 4 ore per 4 giorni alla settimana, e nel weekend sono completamente assenti), e nel frattempo è morta. 


Direte: purtroppo sono cose che succedono un po’ dappertutto, anche da noi. Certo. Ma non per questo dobbiamo rassegnarci e far finta di nulla. Nelle carceri (e i centri di detenzione degli immigrati clandestini non dovrebbero esserlo…) non si dovrebbe morire per mancanza di cure mediche e non dovrebbe essere così facile suicidarsi. Chi ci finisce – a torto o ragione – ha il diritto di essere rispettato, curato, protetto. Esattamente quello che non è stato fatto con il povero Gianluca Stafisso.

© RIPRODUZIONE RISERVATA