Enrico Vanzina
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Vanzina: «Gervaso mi consigliò: “Leggiamo Seneca per capire la morte”»

Gervaso mi consigliò: leggiamo Seneca per capire la morte
di ​Enrico Vanzina
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Giovedì 4 Giugno 2020, 00:40 - Ultimo aggiornamento: 00:41

Da qualche anno, il mio amico Roberto Gervaso si era trasferito a Milano. E questo aveva cambiato in maniera sostanziale le nostre assidue frequentazioni romane, quasi sempre a delle cene con altri amici in casa sua. Lui e io, però, continuavamo a sentirci spesso al telefono.

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In una delle ultime telefonate, dopo avermi raccontato con precisione scientifica la somma delle sue gravi malattie, che lui accettava con la forza del suo scetticismo morale, mi disse: “Vedrai che tra un po’ dovrai scrivere di me… Ricordarmi sulle pagine del giornale…”. Oggi, la sua premonizione, si avvera. E sono malinconicamente costretto a ricordarlo proprio su una pagina di questo quotidiano con il quale Roberto ha collaborato da protagonista assoluto. Ma come si fa, dovendogli rendere giustizia, a ricordare un uomo eclettico, intelligente, anticonformista, colto, unico come lo è stato Roberto? Adesso lui non c’è più. Eppure, questo distacco dalle cose terrene lo aveva messo in conto. Alcuni anni fa, durante la malattia di mio fratello Carlo, prima della sua prematura scomparsa, Roberto mi aveva consigliato la lettura di Seneca, il suo faro assoluto.

Ogni tanto m’inviava qualche brano della “Lettera a Lucilio”, nella quale Seneca ci esorta a non temere la morte. Lui aveva fatte sue le parole di Seneca e si stava preparando, con dignità e grande forza morale, al distacco dalla vita terrena. Mai ebbi la sensazione che questo suo atteggiamento fosse scalfito da un dubbio. Roberto pensava e viveva come un vero filosofo. Infatti viveva in maniera spartana. Scherzando, raccontava che la sua adorata moglie Vittoria gli passava una “paghetta”.

Ed era con quei pochi spiccioli che lui andava avanti. Nella sua vita quotidiana si accontentava di una scrivania, di una macchina da scrivere, del pensiero e del lavoro. Non era tuttavia un’eremita. Amava la vita, il cibo, le donne, il cinema, la lettura, gli amici, come ho raramente visto in vita mia. Ma era serio, molto serio. Pensava di essere capitato su questa terra per “capire” e quindi per “raccontare” quello che aveva capito. Con me intratteneva dialoghi sempre frizzanti. Ci legavano la sua amicizia con mio padre, la conoscenza reciproca di molti italiani che hanno rischiarato con intelligenza la vita sociale del nostro paese. Ci legava soprattutto la nostra visione liberale dell’esistenza. Sia in termini politici che più allegramente di costume. Era spiritoso, talvolta un po’ dispettoso, mai maligno. Aveva attraversato parte del 900 ancorato ai valori di una borghesia nella quale si riconosceva, ma che si era persa per strada, era diventata confusa e balbettante, senza orgoglio. I suoi modelli di riferimento, Longanesi e Montanelli, lo avevano nutrito di sarcasmo, con il quale fustigava anche i suoi presunti sostenitori. Come i suoi maestri, aveva una proprietà di linguaggio, e di scrittura, che rendeva tutto comprensibile e semplice. Era indubbiamente un fuoriclasse.

Ma non si può capire Gervaso, effervescente e scoppiettante, senza ricordare il male oscuro che lo ha devastato per lunghi anni. Quella forma depressiva che già aveva minato il suo amico Indro Montanelli. Roberto ha passato lunghi periodi di disperazione, raccontati poi in un bellissimo libro. E questi momenti d’ombra hanno certamente fortificato il suo coraggio di fronte a successive malattie. Tante, troppe. In uno dei suoi famosi aforismi, disse: “L’uomo è un condannato a morte che ha la fortuna di non conoscere la data della sua esecuzione”. Oggi la data noi la conosciamo. Ma, andandosene, Roberto sicuramente non ha pensato alla fine, ha pensato a quello che aveva vissuto prima. Una esistenza meravigliosa. Speciale come lo è stato lui.
 

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