Alessandro Campi
​Alessandro Campi

Ritorno al passato/ Il fantasma dell'eversione e l'obbligo di restare uniti

di ​Alessandro Campi
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Lunedì 6 Febbraio 2023, 00:10

Nella storia repubblicana gli italiani hanno sperimentato, con diversa intensità, sette forme di terrorismo tra di loro variamente intrecciate: quello della galassia brigatista e rivoluzionaria di sinistra; quello fascista-golpista; quello irredentista in chiave anti-unitaria; quello fomentato o protetto dai settori deviati dei servizi segreti; quello arabo-nazionalista; quello islamista; quello mafioso.

Diverse le matrici e le motivazioni, costante l’obiettivo: creare angoscia diffusa, disordine sociale e instabilità politica. Siamo un caso unico tra le grandi democrazie. Per l’intensità della minaccia sopportata, per la sua abnorme durata e, appunto, per la molteplicità delle fonti. 

Se fino ad oggi siamo riusciti a neutralizzare gli effetti disgregatori di questi diversi terrorismi è perché tutti i partiti, andando oltre il colore politico dei governi, nei momenti difficili hanno attivamente difeso l’integrità dello Stato.

Con un simile passato la vigilanza dinnanzi alle nuove espressioni che l’eversione potrebbe ancora assumere è dunque d’obbligo. Sapendo che se l’allarmismo che sfocia nella criminalizzazione del dissenso o nella delegittimazione degli avversari è una strategia errata, soprattutto se perseguita da chi detiene il potere e ingigantisce le minacce per mantenerlo, la sottovalutazione che diventa indulgenza anche solo involontaria verso chi usa il linguaggio della rivolta) magari abilmente travestito da causa umanitaria o da battaglia per la libertà, rappresenta un errore politico altrettanto grande.

Veniamo così alle profonde spaccature che si sono prodotte in questi giorni in Parlamento e nell’opinione pubblica per la vicenda dell’anarchico Alfredo Cospito: un condannato per atti di terrorismo da settimane in sciopero della fame contro un regime carcerario (il cosiddetto 41 bis) ritenuto, da lui e da chi sostiene la sua causa, inumano e indegno di uno Stato di diritto.

Una vicenda politicamente complessa: uno Stato dimostra infatti la sua forza, anche morale, se concede la propria indulgenza in modo unilaterale, non perché costretto dalla paura, da un ricatto o dalle pressioni esterne. Ma che presenta anche tratti paradossali, nella misura in cui dalle preoccupazioni per la saldatura che potrebbe oggettivamente determinarsi, dietro l’ombrello formale e capzioso del garantismo, tra criminalità organizzata ed eversione politica, dai timori che le mobilitazioni a sostegno di Cospito possano diventare l’occasione per scontri di piazza e per azioni violente contro simboli e uomini dello Stato (anche fuori dai confini nazionali), si è rapidamente passati all’accusa, rivolta al governo in carica e in particolare alla premier Giorgia Meloni, di aver costruito, per mera propaganda, una minaccia eversiva che non esiste e di star operando in una chiave, essa sì, destabilizzante dell’ordine democratico e costituzionale. Davvero una curiosa inversione dei ruoli e dei termini del problema.

In realtà, a chi obietta che l’insurrezionalismo anarchico attualmente non rappresenta un pericolo per il potere pubblico, semmai l’espressione di un radicalismo politico che trova spiegazione, se non giustificazione, nel fatto che la società del capitalismo globalizzato è ormai divenuta la peggiore nemica dell’umanità, andrebbe ricordato che nella storia la violenza armata, oltre a crescere d’intensità nella misura in cui non è stata riconosciuta come tale sin dalle sue prime manifestazioni, si è sempre presentata, per giustificarsi e rendersi accettabile, come una dolorosa necessità finalizzata al perseguimento di una grande causa collettiva di redenzione.

Un tempo era la dittatura del proletariato o la società senza classi, oggi è l’autogoverno delle masse e la liberazione degli individui da ogni giogo.

Sbaglia dunque chi pensa che quella degli anarco-insurrezionalisti sia una forma di legittima resistenza ai soprusi del potere nella quale l’uso di metodi extra-legali – dal sabotaggio al danneggiamento di beni – costituisce una risorsa estrema, con la forza fisica utilizzata soprattutto per ragioni di autodifesa. 
Si tratta al contrario di una strategia consapevole e pianificata di violenza molecolare o a bassa intensità praticata ormai da molti anni contro persone, beni e simboli del sistema chi ci si è prefissi di abbattere.
Si tratta di una modalità d’azione che viene presentata come risposta al disagio degli esclusi dalla società dell’opulenza, come espressione del desiderio di giustizia sociale, come un esercizio di contro-democrazia dal basso, ma che in realtà esprime una scelta deliberata per l’insurrezione generalizzata come pratica rivoluzionaria su scala globale, motivata anche in una chiave estetico-liberatoria (la “gioia armata” teorizzata sin dal 1977 dal padre dell’anarco-insurrezionalismo italiano Alfredo Maria Bonanno).

Parliamo di minoranze, è vero, ma come sempre sono quelle che attraverso la violenza puntano a sovvertire l’ordine vigente. Parliamo altresì di gruppi che, pur operando all’interno di una consolidata rete internazionale, rifuggono per ragioni di dottrina qualunque forma di organizzazione stabile, sempre a rischio di cadere nell’autoritarismo gerarchico, e preferiscono lo spontaneismo: ciò li rende poco controllabili e prevedibili, ma anche più facili da infiltrare e strumentalizzare e dunque un potenziale strumento per quelle potenze che praticano la guerra indiretta.

In questo quadro, che se non è allarmante nell’immediato va comunque tenuto sotto osservazione esattamente come si fa con tutte le altre realtà potenzialmente eversive o minacciose, c’è davvero poco spazio per le evocazioni romantiche sullo spirito libertario e ribelle che storicamente ha contraddistinto la militanza anarchica all’insegna del motto “morte al tiranno”. 

Da un lato, non ci sono più re, principesse o capi di Stato da uccidere in attentati solitari spesso destinati a tragici fallimenti ma forieri di gloria postuma. Dall’altro non esiste più la paura del grande complotto anarchico che per decenni, tra fine Ottocento e inizi Novecento, ha attraverso le società borghesi europee. Questa ormai è storia che sconfina nella letteratura. 

Ciò di cui parliamo è invece l’evoluzione teorico-strategica della lotta armata rivoluzionaria italiana dopo il fallimento di quest’ultima. L’anarco-insurrezionalismo, a leggerlo con attenzione, segna il passaggio dall’idea di un attacco frontale allo Stato a quella della sua disarticolazione progressiva dal basso attraverso il sabotaggio e gli atti di disobbedienza anche violenti; dalle unità combattenti clandestine gerarchizzate allo spontaneismo dei gruppi sul territorio; dalla cupezza dottrinaria del marxismo-leninismo ad un pastiche ideologico, non privo di seduzione, che oggi tiene insieme anti-fascismo militante, ambientalismo anti-capitalista, anti-razzismo, lotta alla repressione carceraria e denuncia del militarismo.

Una classe politica seria vigilerebbe su tutto ciò: senza creare nemici immaginari, ne abbiamo già troppi di reali, ma senza nemmeno dividersi e litigare nel modo indecoroso e autolesionistico che abbiamo visto in questi giorni.

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