Paolo Graldi
Paolo Graldi

I fischi all'Inno/Quella incapacità anglosassone di essere sportivi

I fischi all'Inno/Quella incapacità anglosassone di essere sportivi
di Paolo Graldi
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Martedì 13 Luglio 2021, 00:11 - Ultimo aggiornamento: 22:01

Quel gesto, visto e rivisto, commentato e criticato a botta calda, nel solenne momento della premiazione, va comunque tenuto nella memoria.


Bisogna farne tesoro, trarne un insegnamento perché è rivelatore di una concezione dello sport in primis, che deve essere leale confronto, e poi di una mentalità, quella che non ammette sconfitte e s’intesta, comunque solo vittorie. 
La lenta, amara e rabbiosa passerella della nazionale inglese dinanzi alle autorità Uefa ha mostrato al mondo il gesto di sfilarsi quel laccio di raso che tratteneva la medaglia d’argento. Quasi si trattasse di un cappio insopportabile, un guinzaglio da sottomissione, qualcosa da cui divincolarsi. Uno ad uno, il capo chino, lo sguardo fisso sulle scarpe, gli atleti di Sua Maestà hanno offerto il collo a quel simbolo che rappresentava comunque un premio, l’essere arrivati comunque in finale. 


Poi si sono liberati di quel “vincolo” infilandoselo in tasca, per nasconderlo. Un gesto concordato tra tutti, in sequenza, per renderlo plateale nella sua insensatezza. Un gesto di silenziosa rivolta infantile, di stizza mal trattenuta, come se la vittoria italiana fosse discutibile e dunque da mettere in dubbio. Diversa la circostanza e l’atteggiamento in occasione del rigore concesso alla squadra di Gareth Southgate contro la Danimarca, discutibile ma comunque accettato. 


Che cosa volevano dire, che cosa volevano dimostrare i “leoni di Sua Maestà”? In tante occasioni, nel solenne momento delle premiazioni, si sono visti negli anni atteggiamenti di contestazione anche clamorosi e magari inopportuni rispetto al contesto in cui avvenivano: avevano tuttavia dietro un’idea, volevano essere il senso di una protesta per una ingiustizia, magari per dei diritti calpestati. Mai per una sconfitta così chiara, limpida, perfetta. 
Una permalosità assai poco elegante e per niente british quella della nazionale inglese.

A parti rovesciate i ragazzi di Roberto Mancini ci avrebbero offerto una lezione di compostezza anche se, per loro e nostra fortuna, almeno per adesso non ne hanno mai persa neanche una di partite.

Lo ha ricordato Giovanni Malagò, presidente del Coni, parlando per primo nella bella cerimonia voluta dal presidente Mattarella nei giardini del Quirinale per salutare e ringraziare gli atleti impegnati a Londra: Malagò ha rimarcato come sia stato straordinario, in ogni singolo gesto, il comportamento della compagine italiana, inappuntabile di fronte a qualsiasi pubblico si trovassero ad affrontare. Un riconoscimento che coglie nel segno e traccia con nettezza un connotato alto e nobile della squadra.

Lo stesso giudizio nella sostanza è emerso dalla visita a Draghi, a Palazzo Chigi. Applausi e complimenti con scene e parole di schietta soddisfazione.
Se gli inglesi, viceversa, avessero buttato l’occhio alla finale di Wimbledon poche ore prima della partita di calcio, avrebbero notato la classe, l’eleganza, il sorriso sincero e solare con cui l’italiano Matteo Berrettini ha abbracciato il suo premio, un piatto d’argento e accettato da sportivo impeccabile la sconfitta dal serbo Djokovic. 
Anche quel gesto, quello di Berrettini, va messo tra i ricordi di quell’11 luglio londinese ricco di straordinarie soddisfazioni ma anche di rammarico per insulti, violenze e sventatezze rispetto ai pericoli del virus. 
La memoria serve per i belli, i brutti e anche per i cattivi maestri.

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