Paolo Balduzzi
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Seggi nelle scuole/ Il costo del voto che ricade sui nostri ragazzi

di Paolo Balduzzi
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Giovedì 11 Agosto 2022, 00:11

L’articolo 48 della Costituzione è forse uno di quelli maggiormente conosciuti da tutti: sancisce il diritto di voto, le sue caratteristiche e le cause di esclusione. Stabilisce, perfino, che il voto è un “dovere civico”. Le elezioni sono quindi un diritto chiaramente sancito dalla Costituzione e rappresentano la base della vita democratica. Si votasse anche ogni anno, non ci sarebbe davvero nulla di cui lamentarsi. Che poi, guarda caso, si vota davvero almeno una volta all’anno e, a volte, anche di più. Ma le elezioni costano, si lamenta qualcuno. Il che è vero: ma è vero anche per ogni altro diritto. Ogni diritto presuppone un costo economico: suddividere questo costo tra gli elettori fa quindi parte del gioco democratico.

Ciò che invece non fa parte del gioco è far ricadere il costo del diritto di voto su una categoria particolare di persone: i giovani. Perché se è vero che ogni elezione costa qualche trascurabile manciata euro a ogni contribuente, è anche vero che andare a votare significa chiudere le scuole. Secondo i dati del ministero dell’Interno, quasi il 90% delle sezioni di voto si trova in una scuola (il 75% dei seggi); come se fosse la cosa più normale di questo mondo. E, purtroppo, lo è davvero. Almeno nel nostro Paese.
È talmente naturale che nemmeno se lo Stato ci mette dei soldi per cambiare i sindaci ne approfittano. È successo nel 2021: i soldi, per la verità, erano pochini (due milioni di euro). Ma sono stati ancora di meno i sindaci che ne hanno approfittato. Con quali soluzioni alternative? Edifici di proprietà comunale (aule polifunzionali, biblioteche, palestre, sale consiliari), edifici di proprietà privata (oratori, centri giovanili, centri anziani, fiere, musei), perfino tendoni. 

Come, ma soprattutto dove, si vota all’estero? Svizzera, Francia, Regno unito, Norvegia, Stati uniti: si vota per corrispondenza o su più giorni, durante la settimana, in luoghi allestiti ad hoc, altri edifici pubblici o perfino per strada. Insomma, le alternative ci sono. Se per qualche ragione culturale non riusciamo proprio a convincerci che, per esercitare il diritto di voto, chiudere le scuole e interrompere l’istruzione dei nostri figli sia un vero e proprio abuso di potere sulle spalle dei più giovani, proviamo allora a usare l’argomento dell’egoismo: è così ovvio che ci sia sempre un genitore o un nonno a occuparsi dei ragazzi mentre questi sono costretti a rimanere a casa? È normale dover prendere un permesso, un giorno di ferie, chiudere il negozio perché le scuole sono chiuse, i ragazzi sono in vacanza forzata e i genitori devono arrangiarsi?

Forse, in questo modo, si capirà meglio il senso del disagio. E si capirà meglio anche l’incapacità, atavica ormai, della classe politica di capire davvero cosa significa essere ragazzi e genitori, cosa significa avere il coraggio di mettere al mondo dei figli quando il massimo che lo Stato offre sono quattro soldi (che siano detrazioni o assegno cambia davvero poco, almeno per i lavoratori dipendenti che già ne avevano diritto) se non ci sono servizi all’altezza, se gli orari delle scuole non tengono conto di quelli del lavoro, se gli asili nido si trovano solo se si ha la fortuna di nascere in determinate aree geografiche del Paese, e così via.

Chissà se in campagna elettorale si toccherà almeno uno di questi argomenti: l’inizio non è dei più promettenti e confortanti. E infatti, nemmeno a farlo apposta, si sta parlando di pensioni minime. 

Ai giovani si fanno regali di altro tipo, forse apprezzati ma di certo non desiderabili: tutti promossi all’esame di stato. Che forse va anche bene, visto il terribile periodo da cui stiamo faticosamente uscendo. Ma perché nessuno si pone il problema di come questo contrasti con i risultati dei test internazionali Pisa dell’Ocse, che invece ci vedono sotto la media per quanto riguarda le competenze matematiche, scientifiche ed economiche? 
Un’altra particolarità della classe politica italiana è quella di lamentarsi per la scarsa partecipazione al voto. Di cui tuttavia essa stessa è corresponsabile. Per due motivi. Il primo è che se le persone non votano evidentemente manca fiducia in ciò che la classe politica offre. Il secondo è che, nonostante l’articolo 48 della Costituzione sia chiaro ed esplicito, non a tutti è garantito il diritto di voto. In particolare, e sempre per tornare ai giovani, non lo è per le migliaia di studenti che si trovano “fuori sede”, cioè studiano in una regione diversa da quella in cui hanno residenza abituale. Lo Stato riconosce sì rimborsi (parziali) per tornare a votare, ma basterebbe dare loro la possibilità di votare dove studiano. 

Sono interventi che richiedono più volontà che tempi tecnici di attuazione; addirittura forse costerebbero anche di meno, considerando sia i costi pubblici sia i costi privati. E faciliterebbero maggiore partecipazione al voto. È difficile quantificare esattamente il fenomeno. Gli studenti universitari in Italia sono circa 1,8 milioni. Le stime sui fuori sede vanno da un quinto a un quarto di questa popolazione: non si tratta di un numero insignificante. Il paradosso è che esistono già categorie di persone che possono votare in un seggio diverso dal proprio: le forze armate, i rappresentanti di lista per le elezioni, i ricoverati presso case di cura. 
Addirittura, possono votare i residenti all’estero. E possono farlo per corrispondenza. Gli studenti (e lavoratori) fuori sede, invece, no. Scuole chiuse e voto vietato a chi studia fuori regione: se ci pensassimo a freddo, senza farci condizionare da come si è sempre fatto, ci accorgeremmo che questo prezzo per votare è davvero assurdo e troppo elevato. E, soprattutto, tanto ci direbbe su come i nostri sindaci e il legislatore tengono davvero al futuro del nostro Paese.

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