Paolo Pombeni
Paolo Pombeni

Partiti contro/ La coesione che sarà indispensabile per governare

di Paolo Pombeni
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Mercoledì 14 Settembre 2022, 00:19

Carlo Calenda si è accorto subito che le parole di Letta e di Meloni pronunciate durante il loro unico confronto pubblico, confermavano la sua tesi che nessuna delle due coalizioni gode di solidità se messa alla prova del governare: il primo, per parare le accuse di condividere tesi dell’estrema sinistra, ha detto che si trattava solo di un’intesa elettorale, la seconda ha citato sempre solo il programma di FdI sorvolando su quanto di diverso sostenuto (sonoramente) dai suoi partner. Tutti e due però si sono solennemente dichiarati concordi nell’impegno ad evitare qualsiasi ritorno a logiche da unità nazionale.

È qui che si apre la vera incognita della futura legislatura che tutti dovrebbero augurarsi durasse a lungo, possibilmente i classici cinque anni, perché quello è il tempo chiave per mettere a frutto i soldi del Recovery europeo e per rimettere in piedi il Paese dagli scossoni che ha subito e dalle debolezze che eredita dall’ultimo ventennio e non solo.

Se la coalizione che vincerà le elezioni, quale che sia, entrerà in crisi per le sue tensioni interne che succederà? Avere una volta di più contribuito a diffondere la tesi che un incontro fra diversi è un “inciucio”, un tradimento dell’elettorato, una roba da scomunica lascia aperta una sola porta: se fallisce la coalizione incoronata dagli elettori si scioglie il parlamento e si ritorna alle urne. Non ci vogliono analisi sofisticate per capire cosa significherebbe una soluzione del genere: intoppo e forse fallimento del Pnrr, ulteriore approfondimento dei solchi che percorrono questo Paese in una fase che purtroppo non sarà di rose e fiori.
Vediamo di approfondire ulteriormente gli scenari. Siccome tutti i parlamentari temono e non poco le elezioni anticipate, e sarà ancor più così nel futuro parlamento prodotto da dinamiche piuttosto caotiche, è possibile che per evitare la prospettiva del ritorno alle urne i membri della coalizione vincitrice siano spinti a stare insieme nonostante le loro non marginali diversità. Questo però significa fare tra loro accordi al ribasso, accettare i diktat di uno facendosi pagare con la accettazione di altri diktat. Non occorrono esercizi di fantasia: l’abbiamo già visto sia nel Conte I che nel Conte II e non ne sono derivati risultati apprezzabili.

Troviamo curioso che proprio chi come Letta esalta il modello “parlamentare” del nostro costituzionalismo si faccia poi sostenitore di una prassi da modello presidenzial-decisionista: è il voto popolare che decide i ruoli e a quelli si deve rimanere vincolati. Modestamente vorremmo ricordare che proprio la scelta per il modello parlamentare da parte dei nostri padri costituenti derivò dalla convinzione che in questo Paese andasse garantito un articolato pluralismo evitando di congelare le spaccature in due campi (cosa allora piuttosto facile).
Tutta la storia della prima fase repubblicana è andata in questa direzione: dal fallimento della cosiddetta “legge truffa” del 1953, primo tentativo di blocco su due coalizioni, al rifiuto di Aldo Moro nell’apertura a sinistra nei primi anni Sessanta di mettere la Dc in un fronte conservatore che la obbligava all’intesa con le destre, tanto moderate che estreme, sottolineando invece la necessità di incontro fra diversi.
La forza di un serio modello parlamentare è nella sua capacità di gestire in modo dialettico e flessibile le domande che l’evoluzione dei tempi pone alla classe politica: un’operazione che non si fa agitando bandierine pseudo-ideologiche, ma misurandosi con i problemi nella convinzione che una loro seria messa a punto renda possibili soluzioni ampiamente condivise.

Naturalmente tutti coloro che si ritengono sofisticati analisti della politica ci spiegheranno che alla fine questo accadrà lasciando nel cassetto le intemerate da campagna elettorale quando si agisce ritenendo che i votanti vadano motivati secondo il classico schema dei buoni contro i cattivi. Ci si dovrebbe però interrogare se sia ancora così, perché temiamo che il veleno istillato in decenni di delegittimazioni ad ampio raggio e di populismi se non a volte demagogie senza freni si sia cronicizzato nelle vene di questo Paese.
A fronte di problemi enormi, sia in positivo (investire col massimo profitto i soldi del Recovery europeo) sia in negativo (rimodulare la nostra struttura socioeconomica tenendo conto dei mutamenti storici in corso), sarebbe necessario disporre del massimo di collaborazione possibile per sostenere uno sforzo che coinvolge l’intera comunità nazionale. 

Ciò non può essere compito solo dei parlamentari che risulteranno eletti (e vedremo che qualità di classe politica avrà prodotto il dominio nelle scelte delle oligarchie di partito), ma realisticamente bisogna attendersi che ove venisse a dominare nelle Camere e al governo la logica del radicalismo pseudo identitario per controllare ed occultare le tensioni interne ai vari campi difficilmente si accenderebbe nel Paese quella coesione solidale che è indispensabile per superare anni che non saranno facili.
Ci sembra che disporre di un quadro politico pluralistico, articolato e disponibile non ad “inciuci”, ma ad incontri costruttivi su obiettivi rilevanti come più volte avvenuto nel nostro passato sia qualcosa di augurabile.

Va bene la dialettica, anche un po’ stereotipata fra conservatori e progressisti, a patto che si lasci spazio e iniziativa a chi sa cogliere che in realtà tutti hanno interesse sia a conservare certi risultati sia a progredire su strade nuove.

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