Gianfranco Viesti
Gianfranco Viesti

Diritti negati/ Tutti in Dad un anno dopo. Ma niente è cambiato

di Gianfranco Viesti
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Martedì 16 Marzo 2021, 00:14

La nuova sospensione della didattica in presenza a causa delle “zone rosse” ripropone drammaticamente il tema dell’impatto che la scuola a distanza può avere sugli studenti italiani. Certo, le comunità scolastiche sono oggi più preparate, insegnanti e famiglie più esperti rispetto ad un anno fa; ma questa nuova sospensione si somma a quelle del 2020, senza che si sia utilizzata l’estate scorsa per provare a rimediare alle conseguenze più gravi. L’impatto complessivo delle sospensioni può essere molto rilevante, e provocare conseguenze destinate a durare a lungo nel tempo per gli studenti coinvolti, in termini di vuoti negli apprendimenti (che poi hanno effetti che si cumulano lungo l’intero percorso di studi) e di possibile incremento degli abbandoni. Disponiamo già di una serie di studi, dalla Banca Mondiale all’Ocse, che provano a quantificarlo e arrivano a risultati molto rilevanti in termini di riduzione degli apprendimenti. 

Il recentissimo Rapporto Bes dell’Istat ci dà una notizia drammatica: nell’anno scolastico 2019-20 l’8% dei bambini e ragazzi delle scuole di ogni ordine e grado è rimasto escluso da una qualsiasi forma di didattica a distanza e non ha preso parte alle video-lezioni con il gruppo classe; una quota che sale al 23% tra gli alunni con disabilità. Questi impatti sono certamente molto differenziati, fra ceti sociali e territori, e più forti per gli studenti più deboli. La chiusura delle scuole sta aumentando le gravi disparità che già esistevano nella nostra società. Per più fattori. 

Per quanto riguarda le connessioni delle scuole non ci sono dati aggiornati e certamente negli ultimi mesi si sono fatti grandi passi in avanti; ma si partiva da livelli contenuti e disparità notevoli: nel 2018, ci dice il Rapporto Ecosistema Scuola appena pubblicato, disponeva ad esempio di wifi il 47% degli edifici scolastici al Nord, il 32% al Centro, il 23% al Sud e il 19% nelle Isole. Ugualmente dispari, come rilevato in un’indagine Istat, era la disponibilità di supporti informatici – divenuti ormai un prerequisito per l’accesso all’istruzione - nelle case degli studenti. Non è alta (solo uno su cinque) la quota di italiani con “competenze digitali elevate” in grado di affrontare i problemi tecnici durante l’erogazione della didattica. Solo uno su cinque: uno su quattro al Nord, uno su sei al Sud. 

C’è poi un dato inquietante: la sospensione della didattica in presenza è stata anch’essa differenziata sul territorio nazionale, in una misura che certamente non dipende solo dalla diffusione della pandemia: Save the Children ha recentemente reso noto che nell’anno scolastico 2020-21, fino alla fine di febbraio, gli studenti delle scuole elementari di Milano, Torino, Firenze e Roma sono stati in aula per tutti i giorni previsti, mentre quelli di Napoli solo per più del 70% e quelli di Bari addirittura per meno della metà: pare esservi stata una maggiore facilità alla chiusura delle scuole proprio nelle città (nelle regioni) dove i problemi dell’istruzione erano già più sensibili.

Infine, naturalmente, l’impatto della didattica a distanza è assai diverso a seconda dell’estrazione sociale degli studenti, dei livelli di istruzione e della disponibilità di tempo per seguirli dei loro genitori, degli stessi spazi disponibili nelle abitazioni.

E’ più grave per chi ha bisogno di più scuola. 

In tutto il Paese c’è stata una forte mobilitazione delle scuole e degli insegnanti, delle organizzazioni di cittadinanza e del terzo settore per mitigare questi effetti e soprattutto per evitare che tanti studenti si perdessero. Ma, a quel che si riesce a capire, è stata a macchia di leopardo. E’ questo l’insegnamento più importante che ci viene da queste vicende: l’istruzione dei giovani italiani non è e non è stato un diritto uguale per tutti, ma condizionato, oltre che dalle condizioni sociali di partenza, anche da situazioni particolari, locali.

Da qui bisogna ripartire. Benissimo ha fatto il nuovo ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi a mettere immediatamente in piedi un gruppo di dirigenti scolastici, insegnanti, esperti in materia di disuguaglianze con il compito di elaborare un piano per il recupero degli apprendimenti: un piano non semplice, che andrà calibrato con attenzione sulle diverse realtà del Paese, e dovrà avere un’attenzione particolare alle scuole di frontiera, alle periferie. Tuttavia fermare l’aumento delle disuguaglianze è obiettivo prioritario ma non sufficiente: occorrerà ridurre anche quelle che già esistevano prima.

Per questo c’è l’occasione del Piano di Rilancio. Che pone due grandi sfide: la rapidità e la copertura universale degli interventi. Sotto il primo profilo, i dati non sono incoraggianti: Ecosistema Scuola documenta come fra il 2014 e il 2020 sono stati previsti 6547 progetti di intervento fisico sulle scuole, ma solo 4600 sono stati finanziati e poco più di duemila portati a termine. Sotto il secondo, c’è da garantire che sia fatto molto di più dove le condizioni sono più difficili, mirando non solo alla perequazione delle condizioni strutturali e operative in cui si fa scuola (si pensi al tempo pieno, molto diffuso al Nord ma quasi inesistente in Sicilia), ma anche ad interventi volti direttamente a recuperare le condizioni di minore apprendimento e di più elevati abbandoni.

Tutto ciò solleva un tema di fondo. Ha detto bene lo stesso Bianchi: l’autonomia delle scuole, le competenze degli enti locali non possono voler dire “ognuno per sé”. Il diritto all’istruzione è un grande tema nazionale, un grande diritto costituzionalmente garantito; non può dipendere dalla fortuna di nascere nella famiglia giusta o nel luogo giusto. E’ responsabilità in primo luogo del governo garantire, come ha detto sempre il neo-ministro, «i livelli necessari che ogni bambino e bambina del nostro Paese deve raggiungere per essere partecipe della democrazia».
 

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