Alessandro Campi
Alessandro Campi

Correnti e fazioni/ I partiti divisi alla prova del governo che verrà

di Alessandro Campi
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Giovedì 15 Aprile 2021, 00:10

Un giornalista-politologo oggi dimenticato, Luigi D’Amato, che fu anche editorialista di questo giornale e fondatore-direttore del quotidiano economico “Il Fiorino” (nonché docente universitario e parlamentare non privo di tratti eccentrici), pubblicò nel 1965 un libro dove distingueva, giocando un po’ con le parole, le “correnti di partito” dal “partito di correnti”.
E’ una distinzione che torna utile di questi tempi per capire come si sono malamente trasformati il sistema politico italiano e i suoi attori. Da un pezzo, come sappiamo, sono scomparsi i partiti di massa, all’interno dei quali le correnti non erano solo blocchi di potere, ma anche aree culturali e sensibilità sociali ben riconoscibili che ne garantivamo il pluralismo-dinamismo interno. Al loro posto si sono andate rafforzando, nel corso degli ultimi vent’anni, altre due tipologie: da un lato, il partito carismatico-monolitico, dove contano solo il capo politico (insieme alla ristretta cerchia dei fedelissimi) e/o chi ne possiede la proprietà legale; dall’altro, il partito-coalizione, all’interno del quale, dietro un’apparenza di unità politica e sotto lo stesso marchio, convivono in un equilibrio più o meno precario fazioni, minoranze ideologiche, singole personalità e potentati territoriali (spesso espressione di cordate politico-affaristiche).

Nell’Italia odierna, il primo modello sembra ben incarnato soprattutto dai partiti della destra. In Fratelli d’Italia comanda la Meloni e basta. Nella Lega, dopo l’estromissione del fondatore e leader Umberto Bossi, comanda Salvini; e se malumori e dissensi vi sono, come quelli con Giorgetti, l’impressione è che si tratti piuttosto di un gioco delle parti o di una divisione funzionale del lavoro (al primo la propaganda e il rapporto con gli elettori, al secondo il lavoro dietro le quinte). In Forza Italia, manco a dirlo, il dominus è stato, rimane e resterà sino all’ultimo giorno Silvio Berlusconi.

In questi partiti, che stando ai sondaggi rappresentano il 50 per cento almeno della società italiana, le correnti di partito, ammesso che esistano, non hanno alcuna importanza o visibilità: come se il pluralismo interno, il dissenso e la dialettica delle posizioni fossero un atto di lesa maestà o una minaccia all’unità dell’organismo. Non solo, ma è proprio questa loro propensione eccessivamente leaderistica e monocratica a rendere sempre più difficili, come si vede in queste settimane, i rapporti interni alla coalizione di centrodestra: dove sembra più importante decidere su chi dovrà assumerne la guida che ragionare sul programma di governo da realizzare nel caso di un’eventuale vittoria alle urne. 

Il secondo modello è invece ben rappresentato dal Partito democratico, dove le correnti non solo esistono e sembrano da sempre impegnate più in una lotta per l’egemonia che in una battaglia delle idee, ma sono, per così dire, la sua ragion d’essere costitutiva.

Del partito fondato nel 2007 si dice infatti che sia stato, al di là della retorica sui tre milioni di cittadini che partecipando alle primarie consegnarono la segreteria a Walter Veltroni, una sorta di fusione a freddo tra le nomenklature e gli apparati dei diversi partiti, grandi e piccoli, confluiti sotto il nuovo simbolo nel segno di un generico progressismo riformista.

Da questo difetto genetico, l’essere appunto nato come un “partito di correnti”, il Pd non s’è mai liberato. E se oggi il suo nuovo segretario, Enrico Letta, punta a farne un partito autenticamente plurale, ovvero un’unione virtuosa di minoranze (come dice il suo ideologo e collaboratore Filippo Andreatta), aperto alla partecipazione dal basso degli iscritti e alla collegialità nelle decisioni, è perché ritiene che la sua debolezza politico-elettorale e la sua mancanza di una coerente strategia siano una causa diretta del ruolo nefasto svolto dagli oligarchi che lo hanno sin qui guidato (facendosi peraltro le scarpe a vicenda).
Quanto al M5s, rappresenta uno strano caso intermedio tra i due modelli: nato oligarchico-carismatico, a dispetto dell’enfasi democraticista sulla partecipazione dal basso e sull’uno vale uno, appare oggi in preda a spinte centrifughe e anarchiche, ad una lotta sorda tra frazioni, cordate e sottogruppi, che nemmeno il demiurgo Grillo, con la sua scelta di consegnare la guida politica del movimento a Giuseppe Conte, sembra in grado di controllare. 

Tutto ciò ci consegna un’immagine dei nostri principali partiti che nella fase probabilmente peggiore della storia italiana recente sembra oscillare tra il personalismo e il frazionismo, tra eccessi di accentramento decisionale e spinte verso una sorta di neo-feudalesimo politico, tra la mancanza di dialettica interna e la rissosità travestita da pluralismo, tra il centralismo a parole delle segreterie nazionali e il fai da te dei cacicchi di partito in periferia. Ci si chiede sino a quando e sino a che punto Draghi – entrato forzatamente nell’agone politico proprio per rimediare all’insipienza e debolezza dei partiti – riuscirà a gestire questa situazione. E sino a che punto può fidarsi dell’appoggio di simili attori, bravi più a cavalcare i malumori degli elettori che a interpretarne aspirazioni, interessi e necessità. Ma la vera domanda è un’altra: se questi partiti non troveranno il modo di riorganizzarsi su basi nuove cosa possono aspettarsi gli italiani dopo che Draghi avrà, fra appena due anni, terminato la sua esperienza?
 

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