Paolo Pombeni
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Contesa sulle armi/ I populismi e il ruolo dell’Italia in Europa

di Paolo Pombeni
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Sabato 30 Aprile 2022, 00:08

Occuparsi di politica estera in Italia non è mai stato facile, soprattutto per le classi dirigenti. Pesano indubbiamente le pessime conseguenze dei sogni imperiali fascisti, nonché le mitologie disinvolte della grande proletaria che si è risvegliata, le ambizioni frustrate del post Risorgimento che credeva di aver ristabilito il nostro posto come ultima delle grandi potenze.
Il nazionalismo fa parte, a ragione, delle ideologie da cui tenersi alla larga, ma non ha nulla a che fare con la necessità per qualsiasi Paese di disporre di una visione del suo posto e del suo ruolo nel sistema delle relazioni internazionali. Perché di quello si fa comunque parte, lo si voglia o meno. 
È abbastanza triste vedere che invece ci sono forze politiche e sistemi di comunicazione i quali, per compiacere una nostra storica tentazione a tenerci lontani dal teatro mondiale (piccolo è bello, si diceva un tempo), buttano tutto in un falso moralismo, che è un modo per sentirsi “superiori” stando a bordo campo: illudiamoci di poter dettare le regole su come bisognerebbe essere e se gli altri non si adeguano confermeranno solo la loro cattiveria e il nostro alto sentire. La vicenda che si svolge in Ucraina è un fatto storico, non un gioco di specchi. Si dovrebbe tenerne conto, e partire da lì.

Una potenza, la Russia, ha deciso di sfidare l’equilibrio internazionale e di affermare un suo diritto a ridisegnarlo con il ricorso alla guerra. Una parte del mondo si è schierata per impedirglielo nella convinzione che se Putin vince quella sfida non sarà che l’inizio per una pericolosa rimodulazione della mappa uscita dalla fine del bipolarismo Usa-Urss (con l’imposizione del modello della democrazia illiberale, nome gentile per l’autocrazia).
Una parte del mondo infine sta a guardare o perché non ha forza per inserirsi nel grande gioco o perché ritiene che le convenga aspettare che i contendenti si logorino a vicenda prima di entrare in campo e approfittarne.
L’Italia cosa vuole e cosa può fare di fronte a questa situazione? Ecco la domanda su cui andrebbe costruita una consapevolezza diffusa nel Paese. Speculare sul disorientamento e sulle angosce che percorrono una opinione pubblica già provata dall’impatto di due anni di pandemia è una scelta miope, per non dire meschina, una speculazione tutta giocata per raccattare un po’ di consenso elettorale immediato tacendo al Paese i costi di una impossibile opzione per riproporre il famoso né aderire, né sabotare. 
La storia dovrebbe insegnarci qualcosa. Quando nel 1855 Cavour scelse di mandare un corpo di spedizione a combattere in Crimea a fianco di Francia e Gran Bretagna contro la Russia, lo fece consapevole che se si voleva porre la “questione italiana” all’attenzione internazionale era necessario inserirsi nelle dinamiche internazionali.


Anche allora ci furono le polemiche di quelli che non vedevano la necessità di sacrificare vite italiane per una causa che non ci toccava, perché all’epoca le si doveva preservare per la lotta contro l’impero asburgico. Eppure proprio a quel fine serviva l’operazione internazionale pensata dallo statista piemontese.
Così quando nel 1939 l’ex progressista francese Marcel Déat propose la famosa domanda se valesse la pena di morire per Danzica che Hitler invadeva per riconquistarsela intendendo che una tolleranza di quell’avventura avrebbe evitato una nuova grande guerra, fece un ragionamento miope: nessuno morì per Danzica, ma un anno dopo Hitler avviò la seconda guerra mondiale. 
Oggi il problema che si presenta al nostro Paese e alle sue classi dirigenti è inevitabilmente quello di decidere da che parte stare: non scegliendo fra le opzioni che si possono costruire con la fantasia, ma fra quelle che sono disponibili nella realtà.

A chi - come Conte e Salvini - propone capziose riflessioni su armi difensive e offensive, su azioni pacifiste che non abbiamo né gli strumenti né la forza per mettere in campo, va ricordata la situazione vera in cui ci troviamo. Siamo uno Stato con mille problemi, gravato da un debito pubblico pesantissimo, alla ricerca di una ricostruzione dopo un periodo molto difficile. 


In queste condizioni non possiamo davvero isolarci dalla rete di relazioni in cui ci siamo collocati negli ultimi ottant’anni: relazioni occidentali ed europee, un contesto in cui abbiamo operato, andrebbe anche ricordato, in molti casi con dignità e con onore. Lasciati soli finiremmo privi di un sistema di solidarietà che proprio nel profilarsi di un momento critico sarà essenziale.
Questo ragionamento andrebbe con onestà e chiarezza presentato agli italiani, sottraendoli al gioco perverso delle demagogie contrapposte. Tutti vogliamo la pace, ma non la si costruisce con un generico auspicio di anime belle (si fa per dire) e soprattutto non è pace un momentaneo stop alle ostilità con artifici che diventano solo la premessa per una ripresa ancor più feroce dei conflitti. 
Nei momenti di crisi c’è un bisogno estremo di classi dirigenti responsabili e con le competenze per affrontare la situazione e per valutare quel che si muove nella storia. In Italia ne disponiamo e non c’è ragione per lasciare il posto a quelle che fanno appello ai populismi di comodo (per loro).

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