Francesco Grillo
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Caso Banca Mondiale/ La trasparenza richiesta a chi giudica il nostro Paese

di Francesco Grillo
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Lunedì 20 Settembre 2021, 00:02

È impossibile conoscere lo stato oggettivo di un sistema perché non si può evitare che tale conoscenza sia perturbata dalla posizione dell’osservatore. Quasi un secolo fa, il fisico tedesco Heisenberg formulava il celebre principio che, smontando molte delle convinzioni con le quali le scienze naturali guardavano il mondo, pose le basi della teoria dei quanti.

Quella formulazione è vera anche per gli strumenti di misura che usiamo per misurare il progresso dei sistemi economici verso obiettivi generali di benessere che non ci siamo mai sforzati di chiarire fino in fondo. In realtà, però, in economia succede di peggio: al problema del tipo di termometro che utilizziamo, si aggiunge spesso la dipendenza che il valutatore ha nei confronti del valutato. 

È questa la natura della vicenda che ha costretto i vertici della Banca Mondiale – un’istituzione che assume solo economisti che pubblicano regolarmente articoli sulle più accreditate riviste scientifiche – a sospendere la famosa classifica sulla facilità di fare impresa in Paesi diversi (il “Doing Business”). 
Eppure migliorare la propria posizione in quella classifica era diventato per molti governi un obiettivo capace da solo di dar senso al proprio programma e ciò è stato vero anche per l’Italia che in quella classifica era sempre tra gli ultimi in Europa.

Un economista abituato a vivere di studi con le organizzazioni internazionali troverebbe più conferme tristi che sorprese straordinarie nel rapporto dello studio legale incaricato dalla Banca Internazionale per la Ricostruzione e per lo Sviluppo (Birs) sulle irregolarità delle classifiche che la Banca conduce sulla capacità di 190 Paesi di trattenere e attrarre imprese. 

Il rapporto investiga tre specifici episodi che riguardano la valutazione della Cina nel 2018 e quella relativa all’Azerbaijan e all’Arabia Saudita nel 2020. In nessun caso, i legali riportano esplicite richieste di manipolazione e, invece, semmai casi che – nel calcio – chiameremmo di sudditanza psicologica. Molto più gravi sono, però, le affermazioni che si trovano alla fine del rapporto: i legali denunciano che gli analisti lavoravano in un ambiente dominato dalla “paura di vendette” e guidato – sin dal primo anno di pubblicazione del “Doing Business” nel 2003 – dallo stesso capo. 

Il problema è che la persona in questione è Simeon Djankov, che è tutt’ora il direttore di uno dei gruppi di studio più importanti presso la London School of Economics; bulgaro come Kristalina Georgieva che, all’epoca delle manipolazioni, era direttore esecutivo della banca e avrebbe chiesto di trovare il modo per migliorare la posizione della Cina. 

Quel rapporto ora sospeso, è alla base di 3 mila articoli pubblicati nelle riviste scientifiche più accreditate e proietta un’ombra sulla credibilità di un intero sistema. La questione di cui parliamo ha, in effetti, due dimensioni. E, probabilmente, un’unica soluzione.

Innanzitutto, c’è un problema cognitivo che è riconducibile all’idea stessa di creare indici che valgono per tutti nello spazio e nel tempo.

Gli obiettivi di sistemi a diverso stadio di sviluppo - e con sistemi istituzionali diversi - non possono essere uguali; e sono modificati profondamente nel tempo dal progresso tecnologico. Tale problema è ancora più grave per analisi (come quella del “Doing Business”) che cercano di comparare le economie basandosi, soprattutto, sull’adozione di certe riforme: in un’epoca dominata da una mutazione come quella innescata da Internet, molti strumenti di regolamentazione tradizionali (un esempio è l’Antitrust) vengono messi in discussione e l’effetto di voler adottare tutti gli stessi standard potrebbe produrre un conformismo pericoloso per tutti. Il problema di valutare i Paesi sulla base delle riforme approvate, sottovaluta, poi, il piccolo dettaglio che non sempre quelle riforme vengono implementate (come insegna il caso italiano). 

E però comparare è utile e meno problematiche sono le classifiche che si concentrano, invece, sui risultati finali che le riforme dovrebbero favorire: numerose sono le critiche all’utilizzo del tasso di crescita del prodotto interno lordo come misura di prestazione economica e Amartya Sen suggerisce di integrarlo con tre misure semplici: speranza di vita media, anni passati a studiare e diseguaglianza nel reddito. Interessanti sono, poi, le classifiche basate sulle percezioni – come quella sulla corruzione del “Transparency international” – e, però, esse possono essere distorte dalla stessa comunicazione che può alimentare sensazioni che si separano dalla realtà.

Il secondo problema è, invece, quello del conflitto di interesse sul quale si concentrano i legali che hanno condotto l’indagine all’interno della banca mondiale. Nel caso specifico, è difficile immaginare che i suoi vertici fossero condizionati dalla Cina: in realtà il massimo azionista della Banca Mondiale sono gli Stati Uniti (con il 15,8% dei voti sono l’unico socio che ha un potere di veto su proposte di modifica del funzionamento interno) che ne designano il presidente. 

È vero, tuttavia, che tutte le organizzazioni internazionali subiscono pressioni. Succede alla stessa Commissione Europea che, in alcuni casi, non ha potuto evitare, ad esempio nelle politiche di coesione, un ridimensionamento dell’idea stessa che gli Stati (e le Regioni) vanno valutati per la capacità di spendere risorse comunitarie.

Lo scandalo della Banca Mondiale darà luogo ad alcuni aggiustamenti dei metodi attraverso i quali le organizzazioni internazionali valutano gli Stati e difendono la propria indipendenza. Non è neppure escluso che essa porti alla fine della carriera di alcuni dei suoi illustri protagonisti. Tuttavia, la soluzione più stabile passa attraverso un aumento della trasparenza attraverso la quale le istituzioni con le quali governiamo il mondo rispondono ai cittadini che ne pagano il costo. E dal confronto - sereno, non scolastico - sugli strumenti intellettuali che usiamo per leggere un ambiente che non è più quello che vide nascere certe convinzioni.

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