Francesco Grillo
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Transizione lenta/ I sacrifici della Brexit e il viaggio verso il futuro

di Francesco Grillo
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Martedì 12 Ottobre 2021, 00:12

Fu in Inghilterra, nel 1767, che fu inventato il metodo per iniettare anidride carbonica nell’acqua e creare le prime bevande gassate. Ed è la Coca-Cola che sta sparendo dagli scaffali dei supermercati a Londra, il simbolo delle contraddizioni di un mondo nuovo che avanza creando cortocircuiti con un passato al quale siamo affezionati. A provocare la scarsità di quelle che chiamiamo “soft drinks” è la chiusura di un paio di impianti, determinato da un aumento del prezzo del gas naturale che rende non più economicamente sostenibile produrre anidride carbonica che è, del resto, il gas che sta mettendo a rischio il nostro futuro. 
Ma a creare molti altri buchi nelle catene di distribuzione che arrivano a Londra ci si mette anche la mancanza di autisti europei di veicoli di beni pesanti (Hgv) rimasti senza permesso di lavoro. Sono gli effetti della Brexit che sta, però, moltiplicando tra di loro fenomeni che con l’uscita dall’Unione Europea non hanno nulla a che fare: il risultato finale è la tempesta perfetta nella quale Londra è finita, che è anche un esperimento che tutti gli altri devono osservare con attenzione.

L’economia della scarsità: è questa la definizione che The Economist, il più prestigioso settimanale del mondo, ha trovato per dare un nome – da Londra – del tempo strano nel quale stiamo entrando dopo la grande epidemia che ci ha congelato per diciotto mesi. Scarsità che i sudditi della Regina stanno sperimentando con sorpresa e che, però, comincia a sentirsi anche in Cina, in India, negli Stati Uniti. La lista dei prodotti che mancano aggiunge alla soda beni di tutti i tipi: dai tacchini che accompagnano le festività natalizie alle quali i britannici si preparano con due mesi di anticipo fino ai polli per i quali manca il personale – quasi tutto dell’Europa dell’Est – che era specializzato nel non edificante mestiere di macellarli. Dalla benzina fino ai libri distribuiti dalle piattaforme di commercio elettronico che stanno cambiando il mondo. 

Il caos è, in effetti, il frutto del moltiplicarsi di almeno cinque veloci fenomeni tra di loro diversi. Innanzitutto il Covid-19 che aveva già dal febbraio 2020 portato molti europei (soprattutto dell’Est) impegnati nella logistica a tornare in patria e a non frequentare i corsi che sono indispensabili per formare i futuri autisti di veicoli pesanti. In secondo luogo, le tensioni tra Paesi (soprattutto quelle tra Usa e Cina) divampate a epidemia conclusa e che hanno convinto molte imprese ad accorciare le proprie catene di approvvigionamento e diversi governi a fare incetta di materiali critici (particolarmente acuta è la mancanza di microprocessori). C’è, poi, l’accelerazione sui traguardi – comunque lontani – di riduzione di emissioni di CO2: è la certezza di dover abbandonare per sempre l’era dei fossili ad aver determinato una pesante riduzione degli investimenti su nuovi giacimenti (si sono più che dimezzati dal 2014) e il paradossale effetto collaterale di raddoppiare il prezzo del petrolio rispetto ad un anno fa. A questi tre fattori si è aggiunta la Brexit che ha reso molto più costoso attraversare la Manica; e, infine, una struttura dell’economia inglese che è, da decenni, una di quelle più integrate del mondo, più dipendenti dalle importazioni proprio per aver scelto di avere una base manifatturiera sottile (nel 2019 il peso dell’industria sul Pil era dell’8% nel Regno Unito contro il 15% in Italia, il 19% in Germania e l’11% negli Stati Uniti e in Francia).

Sono, allora, questi i segnali che ci aspettavamo per intravedere l’Armageddon? Quella che noi europei ci aspettavamo fin da quella sera di un’estate appena cominciata nel 2016, quando arrivò la notizia che – come avrebbe detto radio Londra – “il continente era rimasto tagliato fuori dall’isola”? In realtà gli inglesi non ne sono convinti: secondo Natcen, l’agenzia indipendente che dal 1973 misura l’atteggiamento dei cittadini britannici rispetto all’Unione Europea, il Paese continua ad essere spaccato in due parti uguali: oggi prevalgono di due punti percentuali quelli che voterebbero per restare in Europa che è la stessa percentuale con la quale la Brexit vinse cinque anni fa.

I dati economici non indicano veri e propri disastri (la previsione è che il Pil crescerà del 6,6%) e Boris Johnson si è, appena, concesso il lusso di licenziare un ambizioso documento strategico – “una Bretagna globale nell’età della competizione” – nella quale poco si cita l’Europa e si punta velocemente verso le antiche geografie di un impero scomparso. 

Un po’ come in Europa, non sembrano mancare i soldi. E neppure i posti di lavoro. Anzi, per la prima volta negli ultimi 20 anni, ci sono un milione di posti di lavoro vuoti (come dice il grafico che accompagna l’articolo). Scarseggiano le cose da comprare e ciò produce le spinte inflazionistiche che potrebbero costringere la Banca Centrale a interrompere le iniezioni di moneta nell’economia. Peraltro a mancare sono tutti i prodotti che, da tempo e dovunque, avevamo deciso di dover ridurre: le bibite gasate, l’anidride carbonica, la carne, la benzina. Ciò può costringere a innovazioni che in contesti più stabili arriveranno più tardi: può sembrare fantascienza, ma abbiamo già tutta la tecnologia che serve per far viaggiare – almeno in autostrada – veicoli a guida autonoma; mentre potremmo, persino, sopravvivere alla fine dell’allevamento industriale di polli.

Qualche settimana fa, un amico che ho raggiunto per fare insieme una fila chilometrica ad una pompa di benzina vicino Wimbledon – l’unica aperta nel raggio di chilometri – mi ha accolto esagerando “Benvenuto all’inferno. O, forse, nel futuro”. Potrebbe aver ragione. La Brexit produce sicuramente uno stress senza precedenti per una società che ha inventato il consumismo e la globalizzazione. È vero anche che le transizioni non esistono senza scossoni. Anche se è necessario pianificarne – con competenza – i tempi per evitare cortocircuiti tra un futuro di cui non abbiamo ancora capito i contorni ed un passato al quale rimaniamo avvinghiati per inerzia.

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