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La Signora di Birmania, dal Nobel al genocidio

Articolo riservato agli abbonati
9 Novembre 2020 (Lettura 4 minuti)

Il primo incontro risale al lontano 1990. Il camion dal quale conduceva la sua prima, improvvisata campagna elettorale, e sul quale ero salito assieme ad altri colleghi stranieri, si era rotto, e fummo tutti costretti a passare la notte in una locanda isolata alla periferia di Rangoon, la capitale. Parlammo a lungo: lei, Aung San Suu Kyi, ci raccontò tutta la sua vita, l'infanzia accanto al padre Aung San, padre della patria alleatosi con chiunque persino gli invasori giapponesi - gli avesse promesso aiuto nella lotta per la conquista dell'indipendenza, poi rimasto ucciso in un attentato proprio il giorno in cui veniva inaugurato il primo governo nazionale. La scelta di vivere all'estero, seguendo il marito, studioso di buddismo. Il suo ritorno in patria per assistere la madre, malata. Ed il suo improvviso, imprevisto quanto inevitabile coinvolgimento nella vita politica, dopo i massacri perpetrati dalla giunta militare. «Non è quello che pensavo di fare ci diceva ma è quello che debbo fare». Da allora ci siamo incontrati più volte. Nel novembre 2010, appena liberata, fui il primo giornalista straniero ad intervistarla. Uno degli incontri più emozionanti della mia vita. Poi, improvvisamente, la svolta.

Era il novembre del 2015, esattamente 5 anni fa. Il Paese era alla vigilia delle prime elezioni finalmente libere (beh, quasi: i militari continuano a riservarsi il 25% dei seggi ed il diritto di veto per ogni riforma costituzionale) ed era evidente che lei ed il suo partito, la Nld (nuova lega democratica) avrebbero trionfato. Chiesi e ottenni un'intervista, che si svolse a casa sua. Verso la fine le posi una domanda che forse non si aspettava, ma certamente legittima. Una domanda sul suo collega Liu Xiaobo, lo scrittore cinese insignito del Nobel per la Pace, che stava marcendo, gravemente malato, in carcere (morì, sempre in carcere, un paio di anni dopo). La signora era appena rientrata dal suo primo, storico viaggio in Cina, durante il quale aveva incontrato anche il presidente cinese Xi Jinping. Ne avevano parlato? Aveva approfittato dell'occasione per chiedere la liberazione del Nobel? Con mio grande stupore lei si irrigidì, tentando di eludere la domanda. Ma a seguito della mia insistenza si alzò in piedi, dicendomi che non era corretto chiederle il contenuto di un incontro privato (!) e che comunque il mio tempo era scaduto. In pratica mi cacciò di casa. Da allora non sono più riuscito a parlarle. E quando tre anni fa, in occasione della visita del Papa e delle critiche internazionali compresa una lunga lettera del Dalai Lama che stava ricevendo per il modo in cui stava gestendo la tragedia dei Rohingya riuscii finalmente a contattarla, mi attaccò il telefono in faccia. Sic transeat gloria mundi.

Per molti anni abbiamo seguito con molta attenzione, apprensione e simpatia le vicende della Birmania (che oggi si chiama Myanmar), il meraviglioso quanto sfortunato e dilaniato Paese del Sud-Est asiatico immortalato da George Orwell nel suo avvincente Burmese Days, Diario Birmano. E questo anche grazie alla figura carismatica di Aung San Suu Kyi, 75 anni, premio Nobel per la Pace, per molti anni simbolo della resistenza contro il Tatmadaw, uno dei regimi militari più lunghi, sanguinari e corrotti della storia, e della lotta per il rispetto dei diritti umani. La sua liberazione nell'oramai lontano 2011, dopo anni di prigione e arresti domiciliari, venne salutata e celebrata in tutto il mondo, Italia compresa. Una ventina di Paesi e di importanti città, compresa Roma, le concessero la cittadinanza onoraria. Tutte revocate (tranne la nostra, pare, forse sarebbe il caso di farlo) negli ultimi due o tre anni, da quando, a seguito delle elezioni del 2015, la signora è andata al potere grazie ad un discutibile accordo con i militari e da quando si è resa complice, nella migliore delle ipotesi, del genocidio perpetrato nei confronti dei Rohingya, una minoranza etnica di religione musulmana che vive nello stato Arakan-Rakhine e da sempre vittima di pesanti discriminazioni e violente repressioni.

Nell'agosto 2017, a seguito di una violentissima operazione militare, oltre 700 mila persone hanno dovuto abbandonare i loro villaggi, rifugiandosi nel Bangladesh. Un'operazione per la quale Aung San Suu Kyi ed il suo governo sono attualmente sotto processo presso la Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja. L'accusa è gravissima: genocidio. Ma la signora tira dritto per la sua strada. Non solo ha negato tutte le accuse, ma continua a governare assieme ai suoi ex aguzzini, e pur di restare al potere ha ignorato in questi ultimi giorni ogni appello, anche da parte della comunità internazionale, a sospendere il voto. Voto che si è svolto ieri e che ha confermato la sua grande popolarità, ma che per colpa della pandemia e degli scontri in corso in varie zone del Paese è stato sospeso in oltre 50 città e dal quale molte minoranze non solo i Rohingya sono state escluse. Elezioni apartheid, le ha definite Human Rights Watch, usando un termine che speravamo fosse definitivamente sepolto dopo la fine del regime razzista sudafricano. Alla fine, oltre 3 milioni di cittadini sono stati privati del diritto di voto, con il benestare della Signora Povera Birmania.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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