Vittorio Emanuele Parsi
​Vittorio Emanuele Parsi

Il ruolo dell’Europa/ La via stretta per uscire dalla crisi in Bielorussia

Il ruolo dell’Europa/ La via stretta per uscire dalla crisi in Bielorussia
di ​Vittorio Emanuele Parsi
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Mercoledì 19 Agosto 2020, 00:00 - Ultimo aggiornamento: 12:27
Escalation o superamento? È questa la domanda che tutti ci poniamo di fronte alla crisi bielorussa. Sullo sfondo della lotta tra una gran parte della popolazione e il presidente-padrone della Bielorussia, Aleksander Lukashenko, si staglia il confronto tra le dinamiche domestiche di qualunque crisi e le pressioni internazionali. 

Da quel che è dato capire, l’opposizione interna a Lukashenko sta montando, debordando oltre la capitale Minsk, diffondendosi attraverso l’intera società e unificandola sempre più nella richiesta di dimissioni del presidente. Nonostante le tardive, non credibili e probabilmente insincere pro-offerte di “riforme” da parte di Lukashenko, gli spazi di mediazione tra la società e il regime si assottigliano.

Ogni accordo tra parti in conflitto non può che avere per oggetto una prospettiva, se non un’idea, di futuro: e per i bielorussi che marciano e scioperano contro “l’ultimo dittatore d’Europa” (nell’ottimistica definizione degli americani) futuro e Lukashenko rappresentano un ossimoro, una contraddizione. 

Allo stato attuale, solo un ammutinamento interno al regime (del tipo di quello che portò alla destituzione di Ceausescu in Romania nel 1989) o un colpo di palazzo “tattico”, volto a cambiare tutto perché nulla cambi (come quello che depose Mubarak in Egitto nel 2011), potrebbero dar luogo a una transizione morbida. 

Ma mancano sia le condizioni interne sia quelle internazionali perché ciò sia probabile. Mubarak era comunque l’espressione del potere politico e del privilegio economico detenuto gelosamente dall’esercito da oltre 60 anni. Quando Ceausescu venne deposto e fucilato, l’Urss di Gorbaciov era nel pieno della sua crisi terminale.
Lukashenko non si è fatto – e non si farà – nessuno scrupolo nell’usare il pugno di ferro. Se in questi giorni è sembrato esitare è perché non è certo della totale fedeltà dei ranghi delle sue forze armate. Proprio per questo, la rassicurazione esplicita del totale sostegno da parte di Putin è cruciale. Consente al presidente ucraino di riprendere nella sua strategia repressiva, contando sull’incondizionato sostegno russo: anche a costo di vedere limitata la sua futura libertà d’azione, anche al prezzo di trasformare la Bielorussia in una gigantesca “repubblica delle banane”, con Mosca al posto di Washington, e Minsk al posto di qualche tropicale capitale dell’America centrale degli anni della Guerra Fredda. 

Il framework in cui la Russia inquadra la crisi bielorussa, peraltro, è il medesimo di quella ucraina del 2014: una minaccia intollerabile portata da Nato e Ue agli interessi di sicurezza russi, che rischia di vedere scivolare la totalità delle ex province occidentali, prima imperiali e poi sovietiche, fuori della sfera di influenza del Cremlino.
Per la Ue e i suoi Stati membri, per la Nato e i suoi componenti, per l’Occidente più in generale, si pone quindi il dilemma di come sostenere le legittime aspirazioni del popolo bielorusso a liberarsi di un’arcaica dittatura senza provocare il contraccolpo di un intervento militare esterno da parte della Russia. Non possiamo non battere ciglio e contemporaneamente sappiamo che non dobbiamo fornire il minimo pretesto a Mosca per inviare le sue truppe a sostegno di Lukashenko. 

In realtà sia i russi sia gli occidentali rischiano di finire vittime delle “lezioni apprese” dalla crisi ucraina, dimenticando che quella bielorussa si presenta molto diversa (a parte la concezione ossessivo-compulsiva della propria sicurezza che domina al Cremlino): la Bielorussia non ha spaccature linguistico-religiose significative né è in atto uno scontro tra effettive frazioni di classi politiche con visioni alternative sui rapporti da tenere con Mosca e Bruxelles. Ciò significa che persino Putin potrebbe difficilmente contare su personaggi alternativi a Lukashenko e su milizie “filorusse” se le forze militari e poliziesche bielorusse dovessero defezionare. Ecco perché diventa così importante non fornire pretesti ai russi. 

L’Occidente deve quindi sviluppare una “stealth policy” verso la crisi bielorussa, una politica estera che sia poco tracciabile ai radar russi. Da un lato assicurare che non ha alcun interesse che una Bielorussa post-Lukashenko possa costituire una piattaforma antirussa, magari proponendo una neutralità internazionalmente vincolata (come accadde per l’Austria dopo il 1945). Dall’altro sostenere la società civile nelle sue legittime aspirazioni. La minaccia di ulteriori sanzioni nei confronti della Russia (tanto più in una fase di ripiegamento della globalizzazione come l’attuale) è un’arma spuntata e controproducente. I russi sanno benissimo che pagherebbero comunque un prezzo se dovessero intervenire in Bielorussia.

Si tratta di una rotta difficile da tracciare e ancor di più da mantenere, mentre il nocchiero americano è distratto e incapace e la via tedesca sta rapidamente “facendo pratica”. Soprattutto occorre capire che, per imporre il proprio gioco, occorre la capacità di comprendere il gioco altrui e annichilirne le fonti. Chiedere a Conte (Antonio) per conferma.
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