Giuseppe Vegas
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Aiuti alle imprese / I nazionalismi che minano la coesione dell’Europa

di Giuseppe Vegas
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Sabato 14 Gennaio 2023, 00:06

Formidabili le sfide che devono affrontare i governi occidentali negli ultimi anni. Difficili, e soprattutto in ordine sparso, le loro risposte. Invecchiamento della popolazione, energia difficile e scarsità di materie prime, decarbonizzazione e cambiamenti climatici, inflazione e correlato aumento del costo del credito, declino industriale, scomparsa della classe media e riallocazione internazionale della ricchezza sono problemi grandi come macigni, che diventano quasi insuperabili quando arrivano tutti insieme e contemporaneamente occorre anche dare risposte che possano godere dell’apprezzamento positivo dei propri elettori.


Inutile ricordare che, per far fronte a questa drammatica situazione, il nostro Paese non dispone, se non in parte assai ridotta, del principale strumento a cui far ricorso: la spesa pubblica. La questione non è solo che, come ammonisce il recente report di Standard & Poor’s, i governi, dopo aver accumulato debiti durante la pandemia, hanno minori opzioni fiscali. Bensì che si tratta di uno strumento poco utilizzabile perché per noi ormai consunto per il troppo uso nel passato. Sicché, parafrasando Orwell, oggi siamo “meno uguali” degli altri.
Infatti, anche se per il 2023 non si applicherà il Patto di stabilità che, come è noto, sancisce ferrei - ma non per tutti - limiti al disavanzo annuale (il famoso parametro del 3%) e al debito complessivo (60%) in rapporto al Pil, ciò non significa di per sé che le nostre finanze pubbliche siano meno controllate di prima da Bruxelles. Anzitutto, perché il livello del debito costituisce, e continuerà a costituire, il più rilevante parametro per valutare l’entità del rischio cui è esposto un Paese. Non a caso, la possibile revisione del Patto verso la quale sembra che l’Unione si stia avviando pone precisamente l’obiettivo del rispetto di un percorso pluriennale di riduzione del debito. In caso contrario, sono previste sanzioni automatiche.


Ma non basta. Come abbiamo imparato dalla crisi del 2011, anche il giudizio dei mercati sulla solvibilità di uno Stato sovrano, cioè sulla sua reale capacità di pagare gli interessi e di rimborsare il debito contratto, ha un peso fondamentale. Se il rating si deteriorasse, il costo del debito rischierebbe di divenire insostenibile; e potrebbe crescere ulteriormente - rispetto a quello, già elevato, che a causa della ripresa di vigore dell’inflazione grava oggi sul bilancio - e obbligarci a stringere la cinghia quando occorrerebbe qualche iniezione di liquidità nell’economia o a chiedere più risorse ai contribuenti. Quasi superfluo ricordare che quest’anno è prevista una graduale ma sostanziale riduzione degli interventi di acquisto di titoli pubblici da parte della Bce.


La circostanza, poi, che la situazione relativa all’andamento del Pil, al livello del debito e al tasso di inflazione, per tacere di occupazione e produttività, sia assai differenziata tra i Pesi membri dell’Unione, di certo non agevola. Perché quando è in gioco l’interesse nazionale si finisce spesso per dimenticare il superiore valore che deriva, anche per i singoli, dalle scelte comuni.

Basterebbe ricordare i benefici derivati dal fatto che l’Europa ha agito rapidamente quando si è trattato di contrastare gli effetti della pandemia: il Recovery Plan, un fondo condiviso di ben 750 miliardi, è stato varato in tempi record e adesso è in fase di attuazione. Ma dopo l’esplosione del conflitto in Ucraina non è più in grado di coprire anche i nuovi pericoli che si affacciano all’orizzonte. La conseguenza è che ognuno va per conto suo.


Si tratta di un fenomeno comune a tutto il mondo. Ad esempio, gli Stati Uniti oggi ritengono più consono ai loro interessi un approccio meno globalmente integrato ed atlantico. Di conseguenza non hanno avuto remore a varare un maxi-piano da 740 miliardi di dollari, l’Inflation reduction act (Ira), per interventi su transizione energetica (370 miliardi) e sanità destinati a sostenere la domanda purché di prodotti americani. Il che significa in sostanza offrire alle imprese nordamericane un baluardo insuperabile, insieme al basso costo dell’energia, dall’alto del quale poter battere agevolmente la concorrenza europea.


In questo quadro internazionale, non può non preoccupare l’approccio frammentato europeo. Oggi infatti non è ragionevolmente ipotizzabile un nuovo accordo di portata finanziaria analoga a quello del 2020. Per il semplice fatto che nessuno degli Stati “frugali” sembra più intenzionato a condividere il debito con gli altri. O al massimo, come sembra aver proposto il cancelliere tedesco Olaf Scholz, a farlo solo per circoscriverne rigidamente gli obiettivi al caro energia. Ne è derivato una sorta di rompete le righe, dove ognuno ha guardato al suo “particulare”, mirando a ridurre i rischi per il proprio Paese e a migliorarne la posizione relativa all’interno e fuori Europa. Sono così nati programmi contro il caro-energia o veri e propri piani nazionali, o, meglio si direbbe, nazionalisti, per 200 miliardi nel caso della Germania e 100 per la Francia.


La questione che si pone oggi a livello europeo non è tanto quella dell’utilizzo delle risorse finanziarie di ciascun membro, quanto quella della coerenza delle politiche di singoli Stati rispetto all’obiettivo generale del comune interesse dell’Unione. Infatti, in tutti i casi in cui si realizzi un trasferimento di risorse pubbliche a favore di imprese o produzioni, tale da conferire un vantaggio economico selettivo, che falsi o possa minacciare di falsare la concorrenza, si può verificare un caso di aiuto di Stato. Proprio quanto di più estraneo all’approccio culturale dell’Unione e alla sua legislazione.
Con le possibili conseguenze del crollo della fiducia nelle istituzioni comuni e della frammentazione in prospettiva dell’Unione, che vedrebbe bruciati in un falò degli egoismi oltre settant’anni di sacrifici per la costruzione dell’edificio europeo.

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